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«Grideranno le pietre…»

Briciole dalla mensa - Domenica delle Palme (anno C) - 13 aprile 2025

 

LETTURE

Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Lc 22,14-23,56

 

COMMENTO

Questa domenica la liturgia ci offre una sovrabbondanza di parola di Dio: una ricchezza che ci conduce a vivere con fede la Settimana santa. Seguiremo il cammino Gesù che lo porta a vivere a Gerusalemme la sua passione. Ma, contemporaneamente, si compie il suo cammino verso il Padre e, nella sua gloria, il suo essere guida dall'alto alla sua Chiesa.
Nel racconto dell'ingresso di Gesù Gerusalemme, più della metà dei versetti viene dedicato alla «missione» di due discepoli, mandati da Gesù a procurare il puledro, sul quale poi Egli sale. È un invito alla Chiesa a vivere altrettanto.

 

Innanzitutto bisogna essere capaci di motivare il proprio comportamento e quindi a rendere conto, responsabilizzandosi per i propri gesti. Ciò che la Chiesa compie nel mondo non è una requisizione secondo il proprio bisogno, ma è obbedienza alla parola detta dal Signore. Una Parola che rivela la realtà e i gesti non di un re o di un padrone - che requisiscono arbitrariamente le cose secondo il loro interesse - ma di un uomo semplice, nel quale c'è, però, tutta la presenza del Signore, mentre viene all'uomo nella povertà e nell'umiltà. Perché è solo attraverso queste realtà che può realizzarsi l'incontro e il dialogo del Signore con l'uomo.

 

Quella cavalcatura porterà Gesù all'ingresso nella città santa: paradossale proclamazione di un Signore bisognoso e povero. E anche la Chiesa deve essere tale: i limiti, le mancanze, le povertà che può patire devono diventare motivo non di angoscia, ma di fiducia. È proprio il fare come ha fatto Lui che può ispirare sentimenti di fiducia, è la forza di comunione con i poveri bisognosi che diventa la via paradossale di realizzazione di sé come comunità credente, poveri bisognosi a cui è rivolto il Vangelo. Sono allora essi che ci portano la parola di Dio da vivere!

 

«Benedetto colui che viene», proclama la folla dei discepoli. Il fatto che il Signore sia «il Veniente» significa che non è una presenza del tutto verificata, non è un possesso, non è qualcosa che ormai si conosce a pieno, ma porta con sé sempre una novità inaspettata. È proprio il modo di essere di Dio: «Colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8). Che sia il «Veniente» sta a indicare i legami di Dio con il mondo, la sua presenza della storia, costante e presente. Per la Chiesa si tratta, allora, di essere disponibile a mettersi in discussione, a farsi interpellare dalle novità della storia, buone o cattive che siano, senza chiudersi, come oggi, nei suoi stanchi riti e nelle sue disumani morali. Dio è pienezza di vita, quindi la Chiesa deve stare attenta a non annunciare un morto, come fanno i discepoli di Emmaus, ma il Vivente, colui che viene sempre.

 

«Se questi taceranno, grideranno le pietre». Gesù sembra mettere in guardia dal rischio di un silenzio complice, da parte della Chiesa. Quando molti sembrano volere la guerra, quando i potenti e i ricchi prevaricano sui più fragili con i propri interessi di diventare ancora più forti e facoltosi, quando le realtà più fragili della società (poveri, immigrati, lavoratori dipendenti, donne) subiscono sistematicamente rifiuto e violenza, la Chiesa ha il dovere di gridare la denuncia. E di farlo nel nome del Signore Gesù, perché Lui è stato ed è con le vittime, gli oppressi, i negati del mondo e della storia.
Soprattutto oggi bisogna usare una parola scomoda, che proclami quanto il Signore abbia fatto la scelta degli ultimi. Una parola che, nel momento stesso in cui viene proclamata, finisce con rendere chi la proclama simile al suo contenuto: la Chiesa diventa essa stessa povera e rifiutata, come, del resto, lo è stato Gesù. La paura, la convenienza, l’interesse per il proprio buon nome possono portare a non dire parole che esprimano lo scandalo del Vangelo: lo stare preferenziale di Dio con il più violentati e i più rifiutati. Allora si corre il rischio di sentirsi dire da quel Signore che si è identificato con tutti i poveri… «Via, lontano da me» (Mt 25,41).

 

Il racconto della passione secondo Luca ha un suo vertice nella reazione della gente dopo la morte in croce di Gesù: «Tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48). Il sostantivo «spettacolo» e il verbo tradotto con «ripensare», in greco, sono il termine «contemplazione/contemplare». È il guardare come si guarda un volto che si ama. Guardando quel volto trasfigurato dalla sofferenza si contempla con un segreto del cuore, con una tenerezza profonda. Lì si svela il volto di Dio, si svela la sua passione per l'umanità, per la nostra terra.
La croce è la grande icona del credente, l'unico vero spettacolo: quella di un Dio che sta insieme ad «altri due malfattori» (v. 32), che perdona chi lo crocifigge (v. 34), che rinuncia a salvare se stesso (vv. 35-37), che è riconosciuto dal "buon ladrone" nella sorte con i peggiori, e quindi degno di fiducia, per garantire a quel condannato il paradiso con Lui (v. 43), che si consegnerà totalmente nelle mani del Padre (v. 46). Paolo la chiama «stoltezza della croce». È il senso dello spettacolo: è l'annullamento di qualsiasi distanza fra Dio e l'uomo. Il Figlio di Dio lo puoi chiamare per nome, anche se sei un malfattore. Anzi, proprio perché lo sei: e, in tutto il Vangelo di Luca, nessuno mai chiama Gesù soltanto con il suo nome, se non questo disgraziato crocifisso con Lui. «Gesù ricordati di me». E Lui si ricorda: non si ricorda di se stesso, di salvarsi, ma si ricorda di donare il paradiso al malfattore. Questa è la contemplazione.

 

Alberto Vianello

 

 

 

 

Strana questa Pasqua, c’è un’atmosfera caliginosa e non si vede quel che si profila in lontananza. Che c’entra? Si può separare una festa religiosa dalla storia, da quel che succede?
In tanti lo pensano, in molti lo dicono. Succede che la pazzia veste i panni della logica: c’è un nemico, non vuoi procurarti le armi per difenderti? Siamo cristiani, certo, ma se ci attaccano… Allora il discorso va sui soldi, quanti, dove, sui vantaggi della leva obbligatoria e della tecnologia che in guerra fa grandi passi… È stupefacente la facilità con cui anche i cristiani scivolano dalla ragione alla follia. E il Vangelo rimane buono per le ‘abluzioni spirituali’.

 

Il racconto di Luca dice tutt’altro perché quella storia di violenza estrema e immotivata riguarda da vicino ogni nostra contraddizione, quelle dovute a torti subiti, le volte in cui qualcuno si è divertito a pulirsi le scarpe sulla nostra pelle, le volte in cui siamo stati stupidi e cattivi con gli altri.
Mentre si legge la Passione c’è la spocchia del potere e il lamento di poveri che si affliggono per la sorte dell’innocente. Grande e terribile giorno quel venerdì preparato dal trionfo effimero delle Palme. Terribili i giorni che si profilano all’orizzonte. Che c’entra il Vangelo con essi? In che zona, in quale complicata regione della psiche si situa l’idea del ‘nemico’?

 

Proprio nell’inimicizia che abbiamo verso la nostra condizione umana, fragile e mortale. In altre parole le povertà, i limiti non accolti, la carne non amata che sia la propria o del prossimo, i torti subiti e fatti...  i peccati, le insincerità, i giudizi. È inimicizia quel che di noi o degli altri non sopportiamo, le disfunzioni rispetto a modelli performanti, le attese frustrate, il senso di colpa…  Questi sono i nemici e con ciò siamo nemici a noi stessi. Ma l’inimicizia si oggettivizza e da qui a ideare che un nemico, a specchio, ci minacci il passo è breve. Ma Cristo ci ha amati dove noi ci odiavamo, ecco la Passione: il patire e pagare il prezzo delle nostre inimicizie. Il disamore o peggio l’odio che produciamo capace di muoverci alla guerra si è riversato su di Lui: sputi, scherni, colpi, staffilate… il nostro male di vivere.

 

Non c’è chi possa dire che non c’entra con tutto questo, che se ne sta in disparte, per conto proprio. Anche l’indifferenza, o forse soprattutto, ricade sul resto. Siamo comunque connessi. Qualcuno paga, il povero, il piccolo, il bambino che non nasce… La Passione e la Croce sono realtà eterne e diffuse. Le guerre non sono disgrazie naturali.
Anche una buona scienza della psiche può dire la sua. Il nemico? È il rifiuto, la colpa non ammessa, la paura con cui io stesso fabbrico il nemico, facendomi nemico agli altri e nascondo l’imbroglio dicendo di essere oggetto di inimicizia altrui. “Io sono gli altri!”, diceva un operaio poeta di Porto Marghera.

 

Ma nella passione Gesù ha assunto su di sé il nostro male di vivere, la nostra umanità disprezzata e ha fatto nuove tutte le cose. Abbiamo frantumato il grano buono e schiacciato l’uva, ma prendendo forma del pane e del vino egli ci ha dato l’occasione per riconciliarci con la nostra umanità riamata e redenta. Un prete diceva a proposito di 1 Corinti: le parti di noi più sofferenti sono una grazia di Dio. Era matto schianto, in odore di santità.
Allora c’entra il Vangelo con la piccola e la grande storia. Il Vangelo non si risolve nel rito ma risolve i conflitti dal principio, da dove originano e perciò è congruente alla salvezza del mondo. 
Sempre in Luca (cap 21) Gesù aveva avvertit
o “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno…”. Non sia così. Quale è la via della pace oggi? Ascoltare con animo retto il punto di vista dolente dell’altro. Ascoltare il dolore altrui. Dov’è il nemico allora? Questa semplice pratica manca a coloro che esercitano il potere. Anche i bambini possono capirlo, anzi loro più di tutti. Una maestra parlava ai suoi scolari dei lupi cattivi. Una bambina la corresse. “Maestra, non ci sono lupi cattivi, ci sono solo lupi infelici”. O affamati, o impauriti. Bisognerà pregare molto per ‘le maestre’.
Quale sarà la nostra Pasqua? 

 

Valerio Febei e Rita

 

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