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Fino al fine della fraternità

Briciole dalla mensa - Ascensione del Signore (anno A) - 21 maggio 2023

 

LETTURE

At 1,1-11   Sal 46   Ef 1,17-23   Mt 28,16-20

 

COMMENTO

 

L’Ascensione del Signore Gesù al cielo non può essere la “festa” della sua partenza e della sua conseguente assenza: nemmeno la promessa dello Spirito può sopperire alla mancanza e provocare la gioia. Gesù che sale al cielo non raggiunge un luogo lontano e misterioso: va al di là dell’immediatezza di ciò che è direttamente visibile, per creare con noi una relazione più profonda: questo è il vero motivo della gioia. Avviene come fra due persone che si amano: perché la relazione si faccia salda e permanente bisogna andare oltre il “palcoscenico”, bisogna trasfigurare la relazione, cioè attraversare la figura, per scoprire ciò che rimane oltre di essa.

 

Gesù aveva fissato l’appuntamento con i suoi discepoli, per vederlo Risorto, su un monte della Galilea. Da quella regione aveva iniziato il suo ministero pubblico: la «Galilea delle genti», «il popolo che abitava nelle tenebre» (cfr. Mt 4,12-17). Aveva iniziato dai più lontani, da quelli che i religiosi consideravano senza fede. Aveva proclamato loro le beatitudini e l’unica grande legge: essere come il Padre, che ama di un amore assolutamente gratuito (cfr. Mt 5,38-48). In Galilea Gesù aveva poi compiuto miracoli, ma, alla fine, vi aveva sperimentato il fallimento del proprio ministero: pochi gli avevano creduto, cioè i piccoli e i poveri, che, secondo la provvidenza del Padre, diventavano splendida e trasparente icona del Vangelo (cfr. Mt 11,25-30): grazia, dono gratuito, sorpresa immeritata. La Galilea rappresenta tutto questo, e qui il Risorto incontra i suoi. Sta a dire che la ripartenza della Chiesa può essere solo a iniziare dal Signore Gesù, dal suo essere il Risorto, in quanto ha raggiunto le periferie religiose, si è fatto Lui stesso marginalità di fede.

 

«Quando lo videro, i discepoli si prostrarono. Essi però dubitarono». Sono loro stessi appartenenti a quella Galilea dei lontani dalla fede. In Matteo, Gesù non li rimprovera né gli ammonisce: li fa partire da quella regione dei lontani dalla fede che essi stessi portano nel cuore, «andate e fate discepoli».
Mi domando come la Chiesa possa oggi, invece, farsi selettiva delle persone accogliendole in base alla fede e alla morale collegata, mentre il suo DNA è proprio l’incredulità dei primi discepoli che erano stati con Gesù, e l’annuncio del loro ministero è dalla Galilea dei lontani, dalla regione dove è stata più splendente la gratuità del dono divino.

 

«Fate discepoli tutti i popoli»: il Vangelo possa coniugarsi presso ogni cultura e lingua. È l’opera dello Spirito Santo, come contempleremo a Pentecoste. Significa che il contenuto della fede è sempre lo stesso, ma le forme in cui viverlo variano da epoca ad epoca, e da regione a regione. Possiamo dire, da situazione umana ad un’altra. La bellezza del Cristo sta nel fatto che è per tutti: anche per le vite più lontane e contraddittorie. Forse non lo crediamo a sufficienza, e perciò irrigidiamo tutto dentro delle uniche forme, che possono garantire almeno la parte legata alla tradizione. Ma, oggi, ormai anche questa viene meno. I discepoli sono partiti verso l’oriente, altri sono andati fino a Roma e la Spagna: si sono formate liturgie diverse e stili diversi di Vangelo. Solo una successiva difficoltà di comunicazione ha portato alla divisione fra le Chiese e al monolitismo religioso. In ogni espressione di vita c’è almeno un briciolo di Vangelo: questa è la fede da vivere e da comunicare, come annunciatori di Gesù.

 

«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo»: questa è l’Ascensione del Signore Gesù. È un altro tipo di presenza: quella che rinvia alla vita della comunità. Infatti Gesù aveva detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). E si riferiva alla preghiera fatta insieme riguardo ad una questione di difficoltà di relazioni all’interno della comunità cristiana: dopo aver provato a correggere il fratello, ci si affida alla preghiera, per trovare, in Dio, nuovo amore al fine di reintessere comunione; lì Gesù è con noi (cfr. Mt 18,15-20).
La peggiore malattia che rischia di infettare la Chiesa oggi è l’individualismo. Come il consumismo ha bisogno di persone sole, perché si ritrovino nel comperare, così una certa devozione dà vita a un consumismo religioso, fatto di pratiche e devozioni a fruttare benefici divini personali. In fin dei conti, il primo insegnamento “pratico” di Gesù, nel Vangelo di Matteo, subito dopo le beatitudini, è stato il rispetto sempre dell’altro (guai anche a chi gli dice «stupido») e di lasciar perdere la tua offerta all’altare e di andare a riconciliarti con il fratello, prima di tutto: questo è il dono religioso che Dio gradisce (cfr. Mt 5,21-24).

 

«Fino alla fine del mondo». Non amo molto le prospettive catastrofiche: Dio ha amato questo mondo e questa storia fino a darci suo Figlio, perciò non pensa di distruggerlo. Certo, con la Pasqua di Gesù questo mondo è diventato tutt’altro: vi ha vinto l’amore. Letteralmente, il vocabolo tradotto con «fine» indica un «convergere insieme per raggiungere il compimento», la realizzazione del senso (il fine, non la fine). La presenza del Signore Gesù ad aiutarci nel cammino della fraternità ci accompagna a compiere insieme la storia, fino a che essa non si realizzi pienamente in un vivere umano da fratelli, senza più ombra di divisione e ostilità, fino al fine della fraternità: il Regno della pace e della fratellanza.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Ultime istruzioni, saluti e arrivederci. Gesù se ne va, ma assicura che non lascerà soli i suoi, anzi sarà con essi fino alla fine del mondo. Già, ma come è che non lo vediamo? Forte l’emozione degli apostoli, rimasti col naso in su e il moccio in giù a seguirlo oltre le nuvole. È il tempo della Chiesa, il nostro tempo. Da allora la fede in Dio sta o cade sulla testimonianza degli apostoli, noi compresi. Una bella responsabilità. La storia non pare aver preso molto sul serio la notizia: guerre, invasioni, idiozie. Una grave responsabilità. E anche in casa le cose non vanno meglio. Resta vero che le notizie drammatiche si vendono meglio e la buona gente non fa notizia perché portare a casa il pane e pensare alla famiglia è cosa ‘normale’ e quindi non se ne occupa la tv, Sanremo e isole di aspiranti vip in cerca di fama.

 

Ma ecco qui un senso alla vita, anche per noi moderni necessitati al senso, ‘condannati’ dicono i filosofi: testimoniare l’amore, cioè Cristo. Sì, perché quanti si chiedono chi sia Dio, in qualche modo cercandolo (ed è cosa serissima per l’orante del Sal 27 che invoca da persona a persona: “Il tuo volto, Signore, il tuo volto io cerco; non nascondermi il tuo volto”), non c’è dubbio che procedano a tentoni, annusando l’aria e ciò basta a far di noi degli animali religiosi. Ma due angeli in bianche vesti ci richiamano a guardare per terra: la rivelazione l’abbiamo già avuta. Ora si tratta di dirla a tutti. Ce la sentiamo?

 

Da allora Gesù, ‘l’amato’, si è fatto pane e parola. Volendo abbiamo l’uno e l’altra. Dunque, perché attenderlo ‘dalle nubi’? Verrà, sì, ma quando vorrà, e non sarà il guardare in alto a farlo scendere.
Arriviamo al dunque: Egli si è fatto amore. Lo era già da sempre, ma saperlo! Ora però non c’è spazio per le incertezze. E ciascuno di noi, in casa e fuori, ma già in casa può conoscere se ‘ama’ la moglie, il marito, i figli… per davvero, se non mente alla verità. Che è lo stesso che dire allo Spirito. Risuona lo “Spirito e verità” dei veri adoratori (Gv 4,23). Succede che si vada avanti dando per scontato che i rapporti con il prossimo siano perfetti, cioè al top. Ma succede anche che siamo noi la misura dell’amore in quei rapporti.
“Vi lascio un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Non ‘come riuscite ad amarvi’, ‘fate del vostro meglio’ o ‘come ciascuno ama sé stesso’, ché capita anche di non amarsi affatto… ma “come io vi ho amati. Nessuno ha un 
amore più grande di questodare la vita per i propri amici” (Gv 14,13…), eccetera con la promessa del Consolatore e dell’unità con il Padre.

Dunque, dove sei Dio? Dove sei perché io ti trovi e mi consoli? Dove cercarti che io non mi perda e non dissipi le energie? “Mostraci il Padre e ci basta” diceva il ‘tagliacorto’ Filippo. È nel mio modo di amarti, mia cara, mio caro. Nel modo di servire i figli. Ed è cosa dello Spirito, senza il quale l’intenzione di amore non passa dalla mente al cuore, non diventa ‘fattuale’. A ben pensarci, certa uggia, insoddisfazione che segna l’umore, come il nuvolo persistente in questi giorni di maggio, sono dimostrazione che ci doniamo poco, poco amiamo, preferiamo preoccuparci per l’altro, non occuparcene. È incredibile quanta opacità, quante remore, interferenze, quante ‘presenze’ ci distraggono dall’essere davvero e del tutto ‘presenti’ all’altro. Amare per obbedienza è molto più che amare per gusto o scelta umana. Amare per obbedienza comporta che io non mi guardi, non valuti il mio pormi al tuo sguardo, e sono libero e perfetto.
È incredibile quanto di Dio passa o non passa nei nostri rapporti. Amare Dio in chi avvicino. E già questa sarebbe una valida obbedienza: andate e fate discepoli. Di cosa? Dell’amore unica ragione. “Ama e fa’ ciò che vuoi”, sant’Agostino. Non è una frase ad effetto: oltre l’obbedienza, l’amore è beatitudine.

 

Valerio Febei e Rita

 

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