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Fedele perché buono

Briciole dalla mensa - 33° Domenica T.O. (anno A) - 15 novembre 2020

 

LETTURE

Pr 31,10-13; Sal 127; 1Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

 

COMMENTO

 

La prima Lettura parla della «donna forte»: «donna», non uomo; «forte», non «perfetta». Le sue caratteristiche esprimono la forza come responsabilità. Infatti è affidabile («in lei confida il cuore del marito») e laboriosa («si procura la lana e il lino e li lavora»). E la parabola dei talenti vuole proprio invitare i credenti ad essere così «donna», nell'attesa del Signore, essendo responsabili nell'affidabilità e nella laboriosità.

 

Noi siamo come dei servi a cui il padrone «consegna i suoi beni»: è un verbo molto forte, perché implica un radicale privarsi di qualcosa per metterlo totalmente nelle mani di un altro. I «talenti», ciò che il Signore ci «consegna» sono espressione di quanto Lui creda in noi: la vita, l'amore, il bene, le relazioni (anche nelle esperienze del nostro limite), i piaceri, la natura, l'intelligenza ecc., sono tutte prove di quanto il Signore ci dà fiducia e ci incoraggia a mettere il meglio di noi stessi in tutto ciò che viviamo. Ed è stupendo trovare in persone che hanno veramente poco - in termini di salute, di situazioni di vita - un senso forte di impegno, magari piccolo è poco significativo, ma davvero radicale: a incarnare la figura della povera vedova che mette nel tesoro del tempio le sue due misere monetine, «tutto quanto aveva per vivere».
In effetti la vita sembra fare sperequazioni: a chi tanto, a chi niente. Ma la conclusione della parabola dice che l'abbondanza sarà per chi si è impegnato con fedeltà nelle piccole cose, e la indigenza sarà di chi non ha assunto la vita come compito.

 

I primi due servi vanno a «impiegare» (letteralmente: «operare») i talenti e così ne «guadagnano» altrettanti. Nel Vangelo di Luca, si parla di monete che «fruttano»: così Matteo sottolinea maggiormente l'azione attiva dei servi. Sono loro che rendono fecondo quel capitale, a loro affidato dal padrone, facendolo crescere, ed è chiaro che essi non avrebbero mai potuto disporre di tale cifra, ma proprio il loro impegno fa sì che quella ricchezza, non loro, si moltiplichi. A noi è affidato da Dio il suo bene: Lui solo ne è la fonte e la dinamica. Ma sta a noi far sì che quel bene si accresca e si fecondi sulla terra, diventando, appunto, più bene.
Però c'è il caso del servo che va a nascondere sotto terra «il denaro del suo padrone». E quando poi si presenterà a lui per fare i conti gli dirà: «ecco ciò che è tuo», anche se il padrone non aveva richiesto alcuna restituzione. Quel servo non ha mai fatto sua la consegna del bene del suo padrone: non lo ha letto come un atto di fiducia nei suoi confronti, come un invito e uno stimolo a far proprio ciò che il Signore pone nelle mani. C'è un interesse solo formale, esteriore: basta non perdere e dissipare ciò che il Signore ha dato.
Mi pare che corrisponda a molta pratica religiosa ancora oggi nelle nostre parrocchie. Un'osservanza ossequiosa e adulatrice di etiche ed etichette, con la pretesa che poi Dio tenga conto che non si è speso nulla, non si è approfittato della sua grazia, per non rischiare di sbagliare. Certamente Dio non vuole sperperamento dei suoi doni, ma nemmeno sotterramento. Mentre siamo una Chiesa che continua condannare chi ha dissipato, e si permette di lodare chi, per comoda pigrizia, ha nascosto. È meglio esagerare e sbagliare amando, che non far nulla per non compromettersi nell'amore.

 

Il ritorno del padrone ha lo scopo proprio di «regolare i conti»: è la fine dei tempi, quando risplenderanno i talenti di bene che avremo fatto moltiplicare. La lode del Signore verso i due servi che hanno raddoppiato il capitale è espressa con lo stesso vocativo: «servo buono e fedele». Non c'è bontà se non si accompagna alla fedeltà: verso la storia e la condizione umana, dentro la quale spendere i talenti, sperando che sfruttino.
Ma non ci può essere anche vera fedeltà se la bontà non fa riconoscere la bontà del Signore che offre a tutti la possibilità della dignità del proprio lavoro; come il padrone che si autodefinisce «buono» proprio perché dà una buona paga anche a chi ha avuto la possibilità di lavorare solo poco tempo (cfr. Mt 20,1-16).
Questa essenzialità della bontà è ancora più in rilievo se guardiamo al giudizio durissimo del servo pigro nei confronti del suo padrone: «sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». La sua paura del rischio nasce proprio da questa distorta idea di Dio, perché nel suo cuore non c'è bontà, ma solo servilismo. Così il suo signore lo condannerà proprio come servo «malvagio (cioè cattivo) e pigro»: termini antitetici rispetto a «buono e fedele». La condanna della sua paura, che lo ha portato alla inattività, è causata dal rapporto falso che ha con il Signore: ha riflesso in lui la cattiveria che invece abitava il suo cuore.

 

Alberto Vianello

 

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