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È l'ora grande della storia

Briciole dalla mensa - Domenica delle Palme (anno A) - 2 aprile 2023

 

LETTURE

Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mt 26,14- 27,66

 

COMMENTO

 

Accenniamo ad alcuni caratteristiche del racconto della Passione secondo Matteo.
«Scenda ora della croce. Ha detto infatti: "sono Figlio di Dio"». In Marco, gli insulti di quelli sotto la croce di Gesù sono solo una macabra presa in giro, tanto è impossibile per un crocifisso liberarsi dalla croce; in Matteo, invece, con l'aggiunta di queste parole, gli insulti diventano un'estrema tentazione. Gesù crocifisso, che ha «salvato gli altri», sarebbe capace del tutto di salvare anche se stesso scendendo dalla croce. Lui ha confidato in Dio, a cui tutto è possibile, proprio perché è suo Figlio. Anche nel momento dell'arresto, Gesù avrebbe potuto chiedere al Padre «più di dodici legioni di angeli» per liberarlo dalla cattura. Ma se Gesù salvava se stesso, non avrebbe più salvato nessun altro. Se scendeva dalla croce, ci avrebbe stupiti e l'avremmo esaltato, ma nessuno potrebbe più credere e sperare in Lui. Il Signore non vuole conquistare il nostro consenso: vuole aprirci ad un presente e un futuro abitati dalla fiducia, grazie alla sua condivisione della nostra condizione umana.
Dunque, servirsi del fatto di essere Figlio di Dio per salvarsi dalla croce è l'ultima tentazione diabolica che Gesù ha patito, una tentazione di successo secondo la logica di questo mondo che farebbe fallire l'amore di Dio.

 

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»: Sono le ultime parole gridate a gran voce da Gesù, prima di morire. Sono le parole con le quali inizia la preghiera del Sal 22. Essi costituiscono un forte paradosso: infatti è un'accusa a Dio («mi hai abbandonato»), e, nello stesso tempo, continuano a contenere un appello diretto a Dio («mio Dio»). Il salmista, l'uomo biblico, Gesù non cessano mai di essere in comunione con Dio, neppure agli inferi, nell'abisso della desolazione. Perché, secondo la mentalità biblica, un uomo non può sganciarsi da Dio nemmeno quando dispera di Dio. Infatti il nostro rapporto con Dio non dipende tanto da noi, e neanche dalla nostra fede, quanto da Dio solo: è Lui che resta il soggetto principale della fede, è Lui che crede in noi, questa è la fede.
Facendo sue le parole del Salmo, Gesù si sente abbandonato da Dio, ma - nonostante ciò - è ancora capace di sentire Dio come «suo», e quindi sentirsi ancora in relazione con Lui, rimane sempre il «suo» Dio. In questo modo, il suo grido è quello di tutta l'umanità che si sente abbandonata, e, in Gesù, tutti rimaniamo agganciati a Dio, perché Lui, guardando il suo Figlio in croce, vede ognuno di noi, e fa risorgere ogni vita, vittima del male.

 

Matteo racconta la morte di Gesù creando un clima da "ultima cosa del mondo", con un linguaggio apocalittico, da fine di tutto, con sette verbi: «Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono». L'evangelista ci dice così che l'ora della storia - l'ora grande della storia - è questa, e non serve rincorrere chi sa quali altre apocalissi, quali altre parole, quali altre sapienze, quali altre potenze: l'ora è questa. Finiva un mondo e ne nasceva un altro, quello definitivo. Quello della vita per tutti: per la cananea dei cinque mariti, per il cieco che vede Gesù mentre coloro che vedono non sanno credere, per Lazzaro risuscitato da morte.
Per questo vengono ricordate le donne, perché non si sono fermate prima, cioè all'ultima parola del Calvario: è scritto che esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo e «osservavano» da lontano. È un verbo che indica un guardare con profondità, con attenzione, contemplare. Ognuno di noi è chiamato a fare suo questo verbo: non importa se magari siamo lontani, purché contempliamo in silenzio, come le donne.

 

Sotto la croce, quando tutto tace, rimangono le donne e rimane la confessione del centurione romano e di «quelli che con lui facevano la guardia». Anche questo è sconcertante. È come il commento alle parole scritte in precedenza: «Il velo del tempio si squarciò nel mezzo dall'alto in basso». Il velo era la separazione che impediva agli uomini indegni di vedere o di avvicinarsi al luogo santo del Signore. Alla morte di Gesù, l'accesso è libero, si può andare alla presenza di Dio. «Questo è veramente il Figlio di Dio», ha detto il centurione: può accedere alla presenza di Dio anche il pagano, non c'è più il velo.
E la distanza, delle donne e del pagano, diventa il luogo privilegiato da cui guardare e capire, confessare il Crocifisso. Ci sono le donne, quelle che non avevano parlato, avevano seguito e servito: seguire e servire, i verbi dei veri discepoli.
E c'è il centurione, che non si è accodato a tutti gli altri nell'idea che se c'è un Dio è un Dio che salva se stesso. Invece era rimasto affascinato da un Dio che perde la vita, al posto di salvarla. Per lui, la croce portava una buona notizia, quella detta da Paolo in una frase, che anche noi, nella settimana santa, guardando, baciando e contemplando il Crocifisso, ripeteremo: «Ha amato me e ha dato se stesso per me» (Ef 5,2; Gal 2,20).

 

Alberto Vianello

 

 

Dice san Paolo: “La Parola di Dio dimori fra voi abbondantemente” (Col 3, 16), perché come è per la pioggia “così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver … compiuto ciò per cui l'ho mandata” (Is 55,11). Ad essere schietti, le cose non vanno sempre lisce. L’ora ci sorprende impreparati, negli stati dell’uomo vecchio, nell’orgoglio per esempio: si dice che non se ne andrà se non dopo tre giorni dacché siamo morti. Anche l’universo conserva un rumore di fondo che è la radiazione fossile dopo 13 miliardi di anni. Ancora qui?! Ancora qui.
Tra quelle Parole ce n’è una più diretta delle altre: il nostro nome e poi: “Vieni fuori!”, come per Lazzaro.  Che esce fuori dal sepolcro, non di propria virtù, ché nulla potrebbe la condizione umana, miserevole: ma per virtù di quella Parola, pronunciata con forza, preceduta da un gran pianto che fa dire ai presenti: “Guarda come lo amava”. Ma si potrebbe dire: “Guarda come ti ama”. Allora la Parola dimorante in noi un effetto ce l’ha: ci toglie dal rimestare le solite narrazioni dei nostri pasticci, considerandoli rumori di fondo permanenti. A risorse esaurite da mille cadute e mille risalite, veniamo fuori per ‘obbedienza passiva’ al comando: “Vieni fuori!”. E non è facile perché la ragione continua a dirci questo e quello, a ristabilire regole, confini… Tentativi giusti, forse, ma inutili. Non sarà anche questa una questione di orgoglio?

 

“Considerate attentamente colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo” (E 12,3). C’è un’altra via?
Nel quadro della Passione ciascuno può trovare il suo posto. La parte maggiore è  rimasta a casa, in città, assente, probabilmente indifferente. C’è posto accanto ai discepoli, ma tra poco scapperanno. C’è posto fra la gente che passa per caso e scuote il capo sul fallimento di quella storia. Ce n’è dell’altra che è salita fin là per non perdersi lo spettacolo, per curiosità morbosa. Si può stare fra gli anziani del Sinedrio, fra i sacerdoti che assistono alla pena da essi inflitta e ‘doverosa’ tanto più che, non scendendo dalla croce, Gesù conferma di essere un millantatore che bestemmia. Di lato della croce ci sarebbe spazio accanto a Maria, alle donne e a Giovanni che prende coraggio restando dietro a lei. Allora ci sale la commozione perché non ce la si fa a rimanere di gesso davanti al dolore di una madre per un figlio straziato. Si può condividere la situazione di Simon Pietro, che prima dell’alba conoscerà di che è fatto il suo cuore e “uscito fuori pianse amaramente”. Oh sì, Pietro quanto ci assomiglia! Oppure c’è posto dalla parte dei soldati, beceri e avvinazzati per essere capaci di quel supplizio come sempre nelle guerre, anche là, oggi, ai confini d’Europa.
Oppure succede anche di trovarsi dalla parte di Giuda che ha combinato un pasticcio grosso grosso, più grande di lui. Ma pur era necessario perché le Scritture si compissero, necessario ‘all’economia della salvezza’, come si dice in gergo. Che differenza c’è tra lui e Pietro? Tra lui e tutti gli altri, tra lui e me? Non molto. A volte anche la disperazione è simile, Dio ce ne scampi!

 

Ma il posto più scomodo è sul legno della croce. Ah, lì proprio non piace stare. Eppure a volte ci tocca, in piccolo ma ci tocca di portare i pesi di qualcuno, di essere un peso per qualcuno ed accettare l’uno e l’altro. È la realtà questa? Allora anche quella croce lo è. Forse, con poco o tanto coraggio, arriviamo a stare nei pressi di colui che ‘abbiamo’ trafitto e, abbassando la cima dell’orgoglio, contemplare in sincerità tanto amore, lasciandoci toccare. 

 

Valerio Febei e Rita

 

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