Briciole dalla mensa - S. Corpo e Sangue del Signore (anno A) - 14 giugno 2020
LETTURE
Dt 8,2-3.14-16 Sal 147 1Cor 10,16-17 Gv 6,51-58
COMMENTO
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»: queste parole di Gesù non vanno subito riferite al mangiare il pane eucaristico. Con esse, Gesù vuole innanzitutto indicare se stesso come colui che rivela il volto del Padre («Chi ha visto me ha visto il Padre», 14,9). Poi, sempre in ordine al linguaggio di Giovanni, vuole dire che Egli è venuto a dare la vita al mondo con la sua stessa vita (vedi il Vangelo di domenica scorsa). Infatti Gesù ha mostrato all'uomo, attraverso la sua concreta esistenza, come Lui interpreti la vita umana: come uscita da se stesso, come dono di sé, come comunione fraterna, come perdono, come accoglienza cordiale anche della propria povertà…
Perciò il «mangiare me» e il «mangiare la mia carne e bere il mio sangue» sono anzitutto un invito al discepolo all'azione spirituale di assimilare (valore simbolico del «mangiare»), nella propria vita, la vita di Cristo. È un'azione che è fatta di fiducia nel Signore, di ascolto della parola delle Scritture, e di una prassi conseguente, con la quale fare la volontà del Padre (come preghiamo ogni volta nel Padre Nostro). Senza tutto questo, la semplice manducazione eucaristica ha sì una sua oggettiva forza di azione in noi, ma rischia di rimanere periferica, come la realtà di un Signore che bussa alla porta della nostra vita, ma noi non gli apriamo veramente la nostra umanità.
Il «mangiare» è espresso in greco con un verbo per nulla spiritualizzante: «masticare». Questo significa che il nostro rapporto con l'Eucaristia necessita di un'assimilazione, come avviene, appunto, con i cibi che mangiamo. Essa diventa forza di vita giornaliera, rispetto ad esistenze umane spesso stanche e ripiegate su se stesse. Così l'Eucaristia, come presenza divina in noi, ci dà la forza di vivere la nostra umanità, vivendo l’oggi verso l'eternità.
Infatti è significativo che il gesto cristiano più alto, sia il gesto umano più normale ed essenziale: mangiare, masticare, assimilare. Proprio quel gesto comunica la vita eterna. Se il Signore ha scelto un banchetto per comunicarsi a noi, significa che noi non dobbiamo andare alla ricerca di chissà quale sentire interiore per vivere la nostra fede. Essa è fatta delle cose e delle persone che compongono la nostra quotidianità, nella quale ci è chiesto solo di mettere il meglio di noi stessi. Dove si celebra la vita si vive l'Eucaristia.
Gesù non dà spiegazioni, né si sofferma a rispondere al polemico «come?» dei giudei riguardo alla sua affermazione sul dare la propria carne «per la vita del mondo». Semplicemente e direttamente e Egli invita a mangiare e bere. L'Eucarestia non va spiegata, va sperimentata, va vissuta.
Allora sorgono due questioni molto scottanti: la situazione di coloro che la disciplina della Chiesa ha escluso permanentemente dalla partecipazione, e il problema di una celebrazione che sia in grado di far sperimentare, appunto, in modo diretto, l'Eucaristia. Sono due questioni che riguardano proprio la fede nell'Eucaristia: essa è dono gratuito per tutti e non premio per i pochi; essa deve comunicarsi all'uomo di oggi. Se i valori fondamentali sono la condivisione più larga possibile e la capacità di esprimere la vita attraverso la celebrazione, allora tutto il resto deve necessariamente essere ordinato a questi scopi. Perciò, per essere fedele all’Eucaristia, la Chiesa deve aprire (e non chiudere) le porte, deve entrare nelle culture, invece di escluderle.
Per un millennio, i cristiani hanno chiamato «corpo reale di Cristo» la Chiesa e «corpo mistico» (cioè «nel mistero») l'Eucaristia. L'insorgere delle eresie che negavano la presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche ha portato a invertire i termini. Forse oggi è necessario tornare alla dicitura originale. La Chiesa, come comunione fraterna dei battezzati in Cristo, è suo corpo, tenuta in unità proprio dal pane eucaristico a cui si partecipa (vedi la seconda Lettura).
L'impossibilità per due mesi di celebrare la Messa domenicale ci ha fatto riscoprire la dimensione del comune sacerdozio battesimale nelle celebrazioni domestiche. Se davvero ci è mancata la Messa, si dovrebbe promuovere molto di più la partecipazione attiva dei fedeli ad essa: non si è spettatori come davanti alla TV. Ma si partecipa, celebrando; con la presidenza del ministro ordinato.
Poi, riconoscere che là dove c'è una comunità di credenti c’è la presenza reale di Cristo, comporta, per coerenza, riconoscere che se ci sono dei problemi in seno a una realtà che è riconosciuta ricca di doni, questo non deve inficiare la sua bontà. Si deve allora discernere che, evidentemente, lì è all'opera il divisore, che agisce preferibilmente dentro le situazioni di comunione fraterna effettiva.
Alberto Vianello
Monastero di Marango
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