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«Dio è più grande del nostro cuore»

Briciole dalla mensa - 5° Domenica di Pasqua (anno B) - 29 aprile 2018

 

LETTURE

At 9,26-31   Sal 21   1Gv 3,18-24   Gv 15,1-8

 

COMMENTO

La prima Lettura ci narra come Paolo, dopo la sua conversione, sia stato accolto con molta diffidenza dalla Chiesa-madre di Gerusalemme, che, alla prima occasione, lo ha rispedito a casa sua, a Tarso, dove vi è poi rimasto per 14 anni (cfr. Gal 2,1) in esilio! Questo perché Paolo era scomodo in quanto abbatteva definitivamente i confini del giudaismo e della Legge, affermando che solo in Gesù Cristo c'è salvezza e perciò tutti gli uomini possono essere salvati, attraverso la fede in Lui. Se non ci fosse stato Paolo, noi saremmo ancora pagani, come lo erano i nostri antenati del suo tempo! Egli predicava una Chiesa che si apre al mondo riconoscendovi la presenza del Signore nella vita di tutti gli uomini e annunziandovi il Vangelo dell'amore. Per questo ha incontrato l'opposizione di chi vuole una Chiesa chiusa nelle tradizioni, insofferente al confronto e al dialogo.
Anche oggi c'è chi predica la chiusura e la condanna di chi è fuori. Non si tratta solo di cristiani che rispolverano vecchi paramenti, candelieri e ritornano a liturgie che fanno ridere tanto sono estranee alla vita concreta delle persone. Ma anche di chi concepisce una superiorità spirituale ed etica della Chiesa, invece di porsi all'ultimo posto a servire gli altri, come ha fatto Gesù Cristo per tutta la sua vita e come ci ha mostrato, in modo molto provocatorio, lavando i piedi ai suoi discepoli durante l'ultima cena. Dobbiamo chiedere al Signore, per noi e per tutta la Chiesa, fedeltà autentica al Vangelo e umiltà d'amore per tutti gli uomini: come ci insegna papa Francesco.

 

La seconda Lettura contiene una delle rivelazioni più belle e profonde che la Scrittura ci proponga sulla nostra vita umana. Giovanni predica un amore vero: «Non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità». Dice che bisogna amare Dio amando i fratelli, prendendosi cura delle loro necessità. A questo punto, l'autore della Lettera pensa, forse, a una possibile obiezione: nessuno è capace di adempiere pienamente il comandamento dell'amore, in questo ci sentiamo sempre un po' colpevoli... Allora risponde: «Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore». Noi abbiamo una tale preziosità per Dio che nemmeno noi stessi siamo in grado di cogliere. Ci esaltiamo, oppure ci abbattiamo, o ci autoassolviamo dalle nostre mancanze. Invece, non dobbiamo «valutarci più di quanto conviene, ma secondo la misura della fede» (Rm 12,3): è la fedeltà di Dio e la fiducia riposta in noi da Gesù Cristo. Qualcuno ha detto che allora, per conoscersi realmente, dobbiamo guardarci come il Signore ci guarda: per Lui valiamo molto più dei nostri meriti o demeriti. Possiamo così «pacificare il nostro cuore»: scoprendo la bellezza che Dio ha posto in ciascuno di noi.

 

Anche l'immagine della vite (Vangelo) rinvia alla bellezza della vita: essa ha una forza che sembra un miracolo. Stupisce come da pochi rami, che sembrano secchi, a ogni primavera fuoriesce un'abbondanza di buon frutto. Ciò che lo permette è il legame vitale dei tralci alla vite: cioè il legame vitale di noi con il Signore.
È soprattutto l'espressione in negativo che mi colpisce: «Senza di me non potete fare nulla». In modo così lapidario, Gesù abbatte ogni nostra presunzione e ci dice di porre tutta la fiducia in Lui. Ne abbiamo molto bisogno, perché mi pare di riscontrare spesso una fede che non sa andare oltre una misura solo umana.
Per esempio, si dice di credere nella risurrezione, ma poi si rimane totalmente smarriti di fronte alla morte e si ha il "culto del cimitero". Oppure, si accetta che il cuore della fede sia l'amore, ma poi ci si riduce alle misure della semplice giustizia, della pretesa della reciprocità, del rifiuto della diversità. Si afferma, ancora, che in Gesù Cristo tutti godiamo di pari dignità, ma poi la si nega ai poveri che bussano alla porta della nostra società. Ancora: si parla di cammino insieme, ma poi l'altro è soltanto uno che mi deve fare spazio...

Questa è la vita dei tralci tagliati: sterile e secca. Rimanere in Gesù vuol dire, invece, lasciarsi innervare dalla sua energia di vita. Vuol dire lasciarsi trasformare secondo tutt'altra logica: amare i nemici, subire piuttosto che infliggere, mettere in discussione se stessi e accogliere gli altri, vivere "l'ingiustizia" dell'amore, servire e non servirsi, essere disponibili e non rinchiudersi. Questa è la Chiesa che non punta sul proprio fare, ma sull'opera della grazia del Signore: è un tutt'altro fare. Del resto, non dimentichiamo che Gesù non chiede nulla ai suoi discepoli che Lui già non viva nella sua umanità. Così, di se stesso afferma di non poter far nulla, se non ciò che vede fare dal Padre: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre» (Gv 5,19); «Da me, io non posso fare nulla» (Gv 5,30).

 

Il tralcio è connaturalmente collegato alla vite: fa tutt'uno con essa, eppure una cosa è la vite vera e propria e un'altra è il tralcio. La comunione d'amore e di vita, espressa dal verbo «rimanere», usato sette volte nel brano evangelico, è fatta di corrispondenza ma nella differenza. Ognuno ha la propria identità e funzione: è il tralcio a dipendere dalla vite, mentre la vite si serve dei tralci per moltiplicare il suo frutto. C'è un legame vitale d'amore che ci unisce a Cristo: senza di Lui siamo rami secchi. Ma essere uniti a Lui non ha nulla di costruito, è spontaneo e naturale: è nella nostra umanità che dobbiamo far spazio alla comunione con Lui. Se siamo così uniti a Lui, diventiamo realtà nella quale si manifestano i frutti della sua forza vitale: sono i frutti dell'amore, che producono gioia.

 

Alberto Vianello

 

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