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Di Spirito in Spirito

Briciole dalla mensa - Domenica di Pentecoste (anno A) - 28 maggio 2023

 

LETTURE

At 2,1-11   Sal 103   1Cor 12,3-7.12-13   Gv 20,19-23

 

COMMENTO

 

Il Vangelo rivela il dono dello Spirito Santo, ad opera di Gesù, la stessa sera della sua risurrezione. Mentre il racconto degli Atti parla del medesimo dono cinquanta giorni dopo la Pasqua, nella festa ebraica di Pentecoste, dopo che Gesù è salito al cielo. Al di là di tradizioni diverse e scopi letterari distinti, è molto bello considerare il dono dello Spirito in manifestazioni molteplici. Gli apostoli hanno ricevuto lo Spirito la sera di Pasqua, ma ancora ne erano in attesa. Lo Spirito appaga la sete, ma non spegne l’anelito: vieni, Spirito Santo! Se lo si desidera ancora, esso diventa fonte inesauribile e sempre desiderabile (cfr. Gv 4,10-14).
Dunque ci soffermiamo su quella prima e rinviante Pentecoste: la sera della Pasqua, con le porte chiuse. E il suo effetto immediato è proprio la liberazione da ciò che rinchiude dentro gli uomini, che è quindi peccato. Il grande dono dello Spirito dà la libertà interiore: quella che rende liberi, cioè capaci di perdono, di riconciliazione, di pace. Questo è carisma, dono, grazia. Ci sono situazioni del mondo, della storia, della vita personale che sembrano umanamente insuperabili nella loro condizione di divisione. Lo Spirito abbatte tutte le chiusure e chiama a responsabilità. Infatti Gesù, donando lo Spirito, alita una nuova vita umana sui suoi discepoli, quella capace di Dio, capace di renderli umani attraverso i gesti e le parole di perdono.

 

Per il Vangelo di Giovanni, il dono dello Spirito è talmente importante che va a costituire la carta di identità di Gesù: il Vangelo è rivelazione del Figlio di Dio diventato uomo e venuto a donare lo Spirito. È talmente un tutt'uno con la vita di Gesù che, al momento stesso della sua morte, avviene già la Pentecoste: chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Nel massimo della fragilità del suo essere uomo. Perché il dono della sua umanità intrisa di Dio coincide con il dono dello Spirito. Perciò il Risorto non poteva che mostrarsi ai suoi discepoli nell'atto di «ricrearli», di plasmarli con lo Spirito.

 

Mentre i discepoli erano a porte chiuse, «venne Gesù». Due di loro (Pietro e il discepolo che Gesù amava) erano andati al sepolcro al mattino per vederlo, avvisati da Maria di Magdala: sette volte sono ricorsi verbi che indicavano il loro movimento (cfr. Gv 20,1-10). Ma, andati lì per trovare Gesù dove pensavano che fosse, invece sono raggiunti dal Risorto dove loro stessi si trovano. È bellissimo e sorprendente questo dato della fede cristiana. Noi pensiamo che abbracciare la fede nella risurrezione dei morti necessiti della dislocazione dalla nostra condizione, umana e quindi mortale. Invece è proprio nelle nostre morti che siamo raggiunti da almeno un briciolo di percezione della risurrezione.
Tante volte ho sperimentato che Gesù risorto mi raggiunge nelle mie chiusure e mi fa percepire una misura bella e piena di luce che supera le negatività più imperanti nelle persone.

 

«Stette in mezzo»: è il dato più consolante della fede. Il Signore Gesù non ci lascia mai, anche, e soprattutto, nei nostri fallimenti e fatiche. Ma, soprattutto, la sua presenza a noi è il modo in cui Gesù vuole stare nel mondo.
Nella sua lettura sempre pregna di spiritualità, il Vangelo di Giovanni non si limita a descrivere una collocazione del Risorto tra i suoi discepoli. Ma, stando con loro, Lui sta «in mezzo» all'umanità. Quindi sta a noi vederlo presente nella storia, facendolo stare nelle nostre relazioni: nell'amore, nella mitezza, nel perdono.

 

Due volte il Risorto dona la pace ai suoi discepoli. Non li rimprovera, non li apostrofa, non li ammonisce: Lui vince ogni resistenza, ogni mancanza di fede e di amore, ogni dispersione, con il dono della sua pace. Ogni altra immagine o concezione del Cristo che non riveli la sua gratuità nel dare la pace non fa altro che negare la risurrezione, che è il superamento di ogni ristrettezza umana.
«Mostrò loro le mani e il fianco»: il corpo risorto di Gesù ci mostra un amore vissuto fino alla fine (le sue piaghe). E, insieme, questo gesto di estensione delle sue ferite rivela che lo Spirito Santo ha sempre accompagnato tale amore, fino a renderlo occasione di un amore ancora più grande.

 

Il dono dello Spirito Santo ai discepoli è subito legato al compito di perdonare i peccati. Lo Spirito sta proprio dove si vivono umanità ferite e riconciliate; dove ci si abbraccia, che è il gesto più bello e significativo di accoglienza; dove si reintessono con pazienza fili che si sono rotti o sfilacciati. La Chiesa non ha altro compito, per il Risorto. Andare nel mondo a portare la profezia di uno Spirito che è tutto riconciliazione e pace fra gli uomini. È ciò di cui il mondo oggi ha maggiormente bisogno: nella globalità della geopolitica e nell'intimità delle relazioni personali.

 

Alberto Vianello

 

 

Il segno venne dato la sera di Pasqua ma la discesa dello Spirito in apparenza di fuoco avvenne la sera di Pentecoste, stando agli Atti. E fu tutta un’altra storia. Gli Undici, chi li tiene? A parte il rumore che pareva un terremoto e la gente ne era spaventata… Ce n’era di gente a Gerusalemme, tutto il mondo s’era dato convegno per quella festa, Ebrei della diaspora, sciamati per il mondo fin dalle vicende babilonesi, stupefatti dal fenomeno delle lingue.
La storia anche recente racconta che qualcuno, dopo un trauma, al risveglio da un coma, non parli più la propria lingua ma un’altra sconosciuta, o una lingua morta. Certe cose, per quanto documentate, rimangono un mistero stupefacente. Ma bando alle curiosità. Certo è che l’eco di quel botto col tempo si è attenuato. Occorreva al momento per avviare la diffusione della buona notizia del Regno disposto per i credenti. Ma poi ‘beati quelli che pur non avendo visto crederanno’. Una suorina di Montetauro tempo fa, leggendo e rileggendo questa parola (Gv 20,29), d’improvviso esclamò: “Ma questa beatitudine è per me!”.

 

Con ciò pare diffusa la nostalgia di quella temperie: chi profetizza di qua, chi parla le lingue di là, chi opera guarigioni, chi portenti vari… Fuochi d’artificio! E che soddisfazioni verrebbe da prendersi! Succede a volte: un Francesco ad Assisi, una Rita a Cascia, una Caterina a Siena, un Padre Pio a Pietrelcina… suscitati secondo le necessità degli uomini o della Chiesa.
Già san Paolo, a ridosso di quegli anni scoppiettanti di Spirito santo e di martiri, s’era posto il problema e ne parlò nella prima ai Corinti, capitolo 12 e 13. Evidentemente la questione dei carismi era sentita. Conclude il cap. 12 incoraggiandone la ricerca: “Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte”. Ha in vista i tempi futuri, anche i nostri. “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla...”. Segue l’inno degli inni: “È paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto (…). Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine”. Sembra un delitto interromperlo. E poi quel che riguarda i tempi per lui lontani, a noi vicini: “Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà…”. Cose da bambini, dice, perché: “Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!”. Perché più grande? Perché è tutto.

 

Quindi è lecito aspirare ai carismi, ma non tanto da disconoscere il più grande di essi e il più alla portata. Per il resto si può tenere in conto Dante che così risolve l’ambizione eccessiva: «State contenti, umana gente, al quia; ché se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria.»

(Purgatorio, canto III, vv. 37-39).

 

Contentatevi della domanda (quia) e lasciate la risposta a Dio, ché se aveste potuto saper tutto non sarebbe stata necessaria l’incarnazione del Verbo.

Per chi è solo curioso c’è sempre il segno di Giona. Che non sarebbe poco, anzi è tutto: va dal venerdì alla domenica. Un prete metteva i suoi sull’avviso: “Un conto è cercare Dio per servirlo nei poveri, un conto è fare i guardoni’.
Nel vangelo di Giovanni, Gesù, venuto a porte chiuse, diede loro il suo soffio (donato similmente sulla croce) spiegandone la funzione: “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati…”. Così è dato alla Chiesa il ministero del perdono nel suo nome e a chiunque di noi il frutto dello Spirito: il potere di liberare dal male, dalla maledizione, dal mal-essere. Perdono, dal latino, è donare del tutto (‘per’ vale ‘completamente’, come in per-fezione). Diceva quel prete: “Chi mi impedisce di amare?”.

 

Valerio Febei e Rita

 

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