Briciole dalla mensa - 6° Domenica di Pasqua (anno C) - 25 maggio 2025
LETTURE
At 15,1-2.22-29 Sal 66 Ap 21,10-14.22-23 Gv 14,23-29
COMMENTO
Un Dio che viene ad abitare nel cuore dell'uomo e la città di Dio che ha ben dodici porte sempre aperte: intimità e apertura. La liturgia di questa domenica ci offre delle immagini che possono sembrare contraddittorie, e invece sono in profonda armonia e complementarietà fra di loro.
Fra le parole-testamento che Gesù lascia ai suoi discepoli, nell'ultima cena, c'è l'annuncio bellissimo che, per chi ascolta la parola di Dio, Dio stesso verrà a fare casa in lui, nel suo cuore. Questa attenzione alla sfera interiore dell'uomo non è intimismo, è intimità.
L'affermazione di Gesù nasce dalla domanda di Giuda, «non l’Iscariota» (14,22): «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al mondo?». Come i parenti di Gesù, che l'avevano spinto a compiere segni prodigiosi davanti a tutti per guadagnare il consenso (cfr. Gv 7,3-5), così anche questo apostolo vuole che Gesù si manifesti in ciò che colpisce, in ciò che ha valore, che è significativo. È la continua tentazione, anche per noi, di cercare ciò che vale, evitando la piccolezza e l'umiltà.
Gesù reagisce dicendo che tutto può diventare solo scena, apparenza, se non c'è una relazione personale e autentica con il Signore, senza una vita spirituale nascosta, ma reale. Gesù non pensa a qualche specie di esperienza mistica. La vita interiore è dettata solo dall'ascolto della Parola. In effetti, succede con Dio quello che succede anche nelle relazioni fra le persone. Avviene anche nell'esperienza dell'amore umano: quando uno ama una persona, l'altro è come se dimorasse dentro di lui. Sulla base di questo si verifica se l'amore è vero, oppure una parola vuota: se l'altro dimora dentro di te, se lo pensi, se l'ascolti dentro, se gli parli dentro, se la tua casa interiore è abitata da tale presenza.
Dunque, in questo testo, Gesù dice che ci sono delle realtà elementari e irrinunciabili che fanno di una persona un credente: l'amore per il Signore, l'ascolto alla sua Parola, la vita interiore animata dallo Spirito.
Perciò Gesù promette che nella dimora del cuore, nella dimora interiore ci sarà una presenza: quella dello Spirito. Anche questa è una presenza da scoprire e da vivere.
Oggi sono diventate di moda le imposizioni delle mani per l'effusione dello Spirito. Ma, forse più che infusioni dello Spirito, decisivo e bello è vivere lo Spirito che ci abita, che dimora in tutti noi. Rischiamo di fare dello Spirito una riserva per alcune categorie di cristiani, come i monaci. Invece si tratta di compiere ciò che ognuno può fare: aprire la Parola e lasciarla vivere nella propria vita. Sarà lo Spirito a insegnare ogni cosa, ricordandoci ciò che Gesù ha detto. Dentro la parola «ricordo» c'è il sostantivo cor, che in latino vuole dire «cuore»: lì vive la Parola, per poi diventare vita, vita di abbracci.
Insieme a tutta questa dimensione interiore c'è anche la massima apertura. La città di cui parla l'Apocalisse, il vivere degli uomini la pace voluta e operata da Dio attraverso l'Agnello, Gesù Cristo, ha porte su tutti i suoi lati e di quelle porte si dice, nel passo successivo: «Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte» (Ap 21,25). Non è possibile immaginare una vita animata dall'opera dell'Agnello, una vita umana intessuta di fede ponendo dei limiti, delle chiusure, delle selezioni, dove solo alcuni hanno la tessera di accesso al nostro cuore: solo i migliori, i più significativi, con esclusione di coloro che non sono in sintonia con noi. Una vita di fede selettiva, dove si chiude tutto in gruppi: noi e gli altri.
In generale, per la Chiesa si tratta del rischio di restringere i confini della salvezza, di fornire dei pass selettivi con solo le nostre codificazioni della salvezza. Ne è testimone la prima Lettura. C'era chi diceva: «Se non vi fate circoncidere secondo l'usanza di Mosé, non potete essere salvati». È la tentazione di chiudere le porte della salvezza in faccia a tante persone; è la tentazione di creare un passaggio obbligato per la salvezza. E la Chiesa, sia pur con fatica, ha saputo resistere allora a questi tentativi di chiudere le porte della salvezza.
Del resto, ancora il brano dell'Apocalisse dice che non ci sarà più neppure il tempio. È qui che la dimora interiore e le porte spalancate si uniscono, invece di contraddirsi. Perché c'è una radice ben precisa delle nostre chiusure: quando è meno sicura la dimora del cuore. Così si cercano protezioni esteriori, si creano a difesa sbarramenti, si inventano divieti di accesso.
Ognuno è tempio, perché abitato dal «Signore Dio e l'Agnello». Allora la città che è dono di Dio, conquista dell'Agnello sarà un vivere fra gli uomini nell'accoglienza, nella porta spalancata, nel cuore abitato e aperto al desiderio di universalità. Questo speriamo per il nostro mondo, così negativamente contrario.
Alberto Vianello
Quel che penso stabilisce quel che sono. È una riedizione dell’aforisma di Cartesio: penso dunque sono. Qualche dubbio. Il pensiero sarebbe a capo di me, di tutto il resto. Il pensiero non è tuttavia libero, molto spesso è determinato dal vissuto. Vale a dire che sono io che mi ‘leggo’ e leggo gli altri secondo quel che ne ‘penso’. Non mi curo di quel che ne pensa Dio. Eppure non io ho fatto il mondo, solo me lo rappresento.
Immagino un ragazzino, ancora al riparo dall’ansia di strafare, al riparo dalle esperienze che poi lo determineranno. Chi o cosa sarebbe stato senza di quelle? Le storie ci segnano e ci incastrano. Fanno il loro mestiere. Ma nessuno è la sua storia. Chi siamo là dove Dio ci pensa?
In fondo la fede è un ritorno al nostro mistero e al nostro destino. Rimettersi nelle mani di Dio, anche questo è un tornare bambini. ‘Ma come si può rinascere? …’, diceva Nicodemo.
In effetti ci sono storie che scavano solchi nella nostra mente e altre che ci attirano come il canto indiscreto delle sirene. Nostalgie di ciò che è stato e non è più ora. Situazioni attuali in cui non ci pare di riconoscerci e dicono: tu non sei qui, tu non sei questo…
Il ritorno a Dio è piuttosto un reset, un ripristino delle condizioni fondamentali: io non so chi sono ma so che tu lo sai. A te consegno l’ansia. Non devo fare altro che rimanere in questa pacifica attesa confidando nel fatto che Cristo mi ha amato fino alla fine. Se ne può fare un’obbedienza? La mente chi la governa?
Sì, la fede è un’obbedienza. Si capisce allora il frequente ritorno alla preghiera dei monaci, che anche i non monaci praticano a volte. A ore fisse, perché quel rotino sia preminente su ogni cosa, su ogni voglia. Va là che i monaci hanno preso la parte migliore! I salmi infatti sono il nutrimento della mente e del cuore.
Ritorno, quindi, a quel che c’era prima che le vicende accadessero e oltre queste, siano belle e brutte. A quel che Dio ha sempre pensato di noi, a quel che siano per lui. Se non in chi mi ha amato dando la vita per me, dove altro posso ritrovarmi?
La difficoltà è che delle cose abbiamo esperienza, di Dio no, apparentemente. Ma quel che diciamo realtà è la rappresentazione delle nostre percezioni sensoriali: pochissima roba. La scienza progredisce e ci assicura che dell’esistente sappiamo molto molto poco.
Già un occhio più limpido e meno preclusivo lascia intravedere dimensioni nuove ‘oltre la siepe’.
Per questo chi ci sa parlare del Vangelo ci traghetta da una sponda all’altra.
“Chi mi ama mi segue, ascolta la mia parola e la osserva”. È vero: si tratta di amare, poiché se si ama si fa quel che all’amato fa piacere e non altro.
A volte ci aspettiamo che così ci ami la persona con cui condividiamo la vita, premesso che l’attesa è reciproca. Probabilmente già lo fa, lo facciamo. ma con la capacità comunicativa a disposizione e più in là non si è capaci di andare. Chiunque vorrebbe saper amare. Ma per quanto ci si provi, nessuno ci amerà come Gesù ed è cosa saggia non stare a prenderci le misure.
Quanto a chi siamo: il nostro nome è nascosto con Cristo in Dio. il nome, la cifra, l’identità altrimenti inarrivabile. Rimanete nel mio amore. Si intuisce che in questa relazione sia contenuto l’oggetto profondo del nostro destino. Ci pare di coglierlo quando si riesce ad amare senza motivo. Al contrario, il mondo celebra chi si è ‘fatto un nome’, il self made man. È questo? Tanta parte della vita se ne va così, in quel che non è o che, se raggiunto, non è lo stesso. Sappiatevi amati, dice Gesù. Verrà il Paraclito.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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