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Credere è saper ricredersi

Briciole dalla mensa - 26° Domenica T.O. (anno A) - 25 settembre 2020

 

LETTURE

Ez 18,25-28   Sal 24   Fil 2,1-11   Mt 21,28-32

 

COMMENTO

 

«Poi si pentì… Voi poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli»: il credere comporta il sapersi ricredere. Tutto è determinato da quell'avverbio di tempo «poi, in seguito, dopo»: è lo spazio di tempo nel quale possiamo trovare Dio. Perché Lui crede sempre nella possibilità di recuperare l'uomo e, perciò, concede in ogni occasione una nuova chance: se prima si è sbagliato, c'è sempre la possibilità di un «poi» per cambiare. Perciò gli uomini non si distinguono in «santi» e in «peccatori», ma la discrepanza sta fra chi ha approfittato di quel «poi» e chi, invece, non ne ha sentito la necessità, magari perché si credeva già a posto.

 

Gesù racconta la parabola di due figli. Alla richiesta paterna di andare a lavorare nella vigna, il primo dice «no» e «poi» fa «sì», il secondo dice «sì» ma fa «no». Il primo rappresenta quelle persone - anche molto lontane dalla fede, come «i pubblicani e le prostitute» - che con la loro vita hanno detto tante volte «no» a Dio. Ma «poi», a un certo punto - in questo caso attraverso la predicazione del Battista - hanno capito di aver sbagliato nella loro vita e gli «hanno creduto»: cioè hanno ascoltato il suo invito a convertirsi.
Invece, il secondo figlio rappresenta quella parte dei capi religiosi che è in polemica con Gesù: essi si sentono a posto con Dio, anche se Gesù li rimprovera severamente per la loro ipocrisia e falsità, perché «dicono e non fanno» (Mt 23,3). Loro non sentono di aver bisogno di cambiare.
Due volte viene usato un verbo che non è precisamente quello della conversione. Letteralmente significa «interessarsi di se stessi con un sentire cambiato, diverso». Certe situazioni della vita o l'incontro con chi ci propone la fede (qui Giovanni Battista e Gesù) possono portare questo sguardo diverso su se stessi, che significa riconoscersi voluti bene dal Signore anche nelle proprie lontananze, nelle proprie indifferenze: questo può davvero smuovere la vita a un cambiamento. Ma chi crede di adempiere già a tutti i suoi doveri religiosi e non si mette in discussione, non sa cogliere quel «poi» e quell'interesse diverso su se stesso: quello non più dettato dall'individualismo e dalla compiacenza sulla propria giustizia, ma dalle nuove possibilità di cambiamento che il Signore sempre ci offre.

 

C'è da notare che nessuno dei due figli corrisponde linearmente la volontà del loro padre: il primo rifiuta, ma poi si ricrede, il secondo dà un'adesione solo a parole, però poi non obbedisce nei fatti. In fin dei conti, non ci è nemmeno chiesto una perfetta coerenza e corrispondenza di vita: basta il coraggio di ammettere il proprio errore, la via sbagliata che la propria vita ha percorso.
Ma, allora, la situazione diventa veramente straordinaria: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Sono le due categorie di pubblici peccatori per antonomasia: proprio loro, con il loro «no» poi diventato «sì» precedono nel Regno i più integerrimi osservanti della Legge religiosa. Anzi, gli studiosi ci dicono che il verbo «passare avanti» deve essere inteso nel senso di «prendere il posto degli altri». Vite disordinate, sciupate, rovinate, censurabili e censurate occuperanno i posti della beatitudine eterna di Dio, accanto a Lui: perché hanno saputo cogliere, in qualche momento della loro vita, quel «poi».  Mentre i perfetti osservanti saranno esclusi proprio dal loro subentrare. La Grazia sa rendere realmente possibile l'assoluto impossibile: basta ricredersi e sapersi prendere cura in maniera diversa di se stessi.

 

Il figlio che dice «no», assume una dimensione di conflitto nella sua relazione con il padre. Ma così si avvia un processo, nel suo mondo interiore, attraverso il quale egli può prendere coscienza del conflitto che abita il suo cuore e, quindi, può cambiare opinione e atteggiamento. Mentre, per l'altro figlio, il suo «sì» serve solo a compiacere immediatamente il padre, evita un conflitto con lui adagiandosi a quello che il padre desidera sentirsi dire; salvo, poi, fare l'opposto. Una certa "parrocchianità", bigotta ed escludente, è solo una facciata buona a credere di compiacere Dio, per poi seguire, invece, le proprie volontà che sono "altre" dalla sua.
All'opposto, risulta molto sano per la fede entrare in discussione e lotta con Dio o, meglio, con certe concezioni del suo rapporto con noi. Come ha fatto Giobbe, fortissimo contestatore della concezione di Dio del suo tempo, sostenuta dai suoi religiosissimi «amici». Lui ha avuto la forza di entrare in conflitto con Dio, per poi diventare il suo amico.

 

Alberto Vianello

 

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