Briciole dalla mensa - 26° Domenica T.O. (anno B) - 29 settembre 2024
LETTURE
Num 11,25-29 Sal 18 Giac 5,1-6 Mc 9,38-43.45.47-48
COMMENTO
Due uomini del popolo ricevono il dono dello Spirito Santo anche se non appartenevano al gruppo dei 70 scelti; Giosuè vorrebbe perciò che Mosè impedisse loro di parlare nello Spirito (prima Lettura). I discepoli informano Gesù di aver vietato a un tale di scacciare demoni nel suo nome «perché non ci seguiva» (Vangelo). Dunque i temi di questa domenica riguardano i possibili atteggiamenti di chiusura di fronte a modi e forme alternative ed extra ecclesiali nelle quali si può manifestare l'azione dello Spirito. Si denuncia il rischio di una visione chiusa e rigida dell'appartenenza di fede; e si invita a guardarsi dal sentimento della gelosia, come grande minaccia che può manifestarsi nella vita comunitaria.
Nel racconto che precede il brano di Marco che leggiamo questa domenica, i discepoli di Gesù si erano dimostrati incapaci di scacciare uno spirito cattivo da un ragazzo epilettico e ora lo vogliono impedire ad un estraneo che ci riusciva, questo solo perché non apparteneva alla loro cerchia. La frustrazione per la loro impotenza provoca dunque arroganza ed esclusione nei confronti di chi ha comunque un carisma, anche se non appartiene alla comunità.
Ma, dietro questa esperienza personale, il comportamento dei discepoli rivela una deriva rischiosa per una comunità ecclesiale: la pretesa di aver solo loro la presenza del Signore, il marchio di autenticità. È una pretesa che mostra come la loro logica sia fatta solo di potere e di dominio.
Gesù presenta una visione totalmente opposta: il suo Nome, cioè la grazia che viene da Lui, non è legato solo a coloro che formalmente lo riconoscono nella fede, ma supera i confini della Chiesa che lo confessa. Gesù ha uno sguardo completamente diverso: non ristretto alla cerchia dei suoi. Gesù non chiedeva a tutti di appartenere al suo seguito. Per esempio, presso chi aveva compiuto il gesto più eclatante, cioè cacciare una legione di demoni, Gesù rifiuta la sequela e gli chiede di andare per la sua strada e annunciare l'opera della misericordia del Signore (cfr. Mc 5,1-20). Gesù non era legato alle appartenenze: piuttosto era appassionato per il fatto che potesse accadere qualcosa di bello, di prezioso, di positivamente determinante per la vita di una persona o di tutta l'umanità, qualsiasi fosse colui che operava secondo la grazia divina.
Oggi viviamo in un mondo ormai lontano e refrattario rispetto ad alcuni valori cristiani. Ma rischiamo di richiuderci come in una città assediata dei pochi che hanno la fede rispetto ai molti che la negano. Rischiamo di arrivare così a considerare come nemici coloro che vivono secondo stili diversi. Certamente la dinamica delle beatitudini comporta anche la possibilità di subire persecuzioni e inimicizie, ma bisogna guardarsi dal rischio di fabbricarsi noi dei nemici, per il semplice fatto che sono caratterizzati da diversità o estraneità rispetto al cristianesimo. Se alimentiamo la logica delle inimicizie inventiamo una Chiesa che non sa vivere l'alterità e la differenza, che sono essenziali alla relazione e alla vita.
Del resto, l'insegnamento del magistero del Vaticano II ci guida alla stessa visione di fede che la Scrittura si presenta: «Dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale» (Gaudium et spes 22). Non è vero che fuori della Chiesa non c'è salvezza; non solo: fuori della Chiesa c'è anche la profezia, c'è l'energia invisibile dello Spirito (A. Casati).
Per questo, poi, Gesù parla del rischio dello scandalo: una sua prima possibilità è proprio quella di un corpo ecclesiale chiuso e autoreferenziale, che non sa vivere dei «bicchieri d'acqua» offerti ai piccoli. Che non sa, cioè, accogliere l'universale linguaggio della carità, il quale abita anche l'uomo ben al di fuori della Chiesa: presenza di Cristo in essi e nei gesti dell'amore, che sono gli unici a determinare un'appartenenza, trasversalmente alla realtà della Chiesa.
Tagliare mano, piede, occhio è immagine per dire di una radicale e personale lotta, ogni giorno, per purificare il proprio cuore, per vivere il Vangelo della carità con maggiore libertà, per lasciarsi condurre dallo Spirito a compiere le opere del bene, le quali scacciano il demone del male, dell'egoismo, e riguardano tutti gli uomini, al di là delle appartenenze religiose.
Una parola anche sulla seconda Lettura, che è una severissima e, a tratti, violenta reprimenda nei confronti dei ricchi. Giacomo non se la prende con delle persone semplicemente perché hanno tanti beni: in tutta la Scrittura la ricchezza non è mai condannata in sé, e la laboriosità dell'uomo e i suoi frutti sono sempre lodati. L'accusa riguarda, invece, una certa modalità dell'accumulo di quelle ricchezze: «Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza». Dietro i grandi capitali c'è sempre il rischio dello sfruttamento e dell'ingiustizia, per vincere la concorrenza e per reggere le lotte fra le lobby di potere. Quando prevale solo l'economia e le sue dinamiche, l'umano finisce con l'essere sacrificato. Sappiamo bene far di conto, ma abbiamo perso l'interesse per il bello, il buono, il giusto, il santo: vale solo ciò che ha un ritorno economico. Quando l'uomo è sacrificato nella sua umanità, la Scrittura si leva a denunciarlo, perché il cristiano rispetti l'uomo in chiesa ma anche, e soprattutto, fuori della chiesa.
Alberto Vianello
Si può essere così sciocchi da far consistere la propria identità nella capienza economica? Si può. Molti lo fanno. Giacomo dice: “La ricchezza è sempre ingiusta!”. Vi è connesso un furto: quel che possiedi in più di quel che ti serve lo hai rubato a chi non ne ha. È causa di ingiustizia e di infelicità vivere per se stessi, badando al proprio benessere, del tipo: sto bene io stanno bene tutti!! Non è un discorso moralistico, ma scienza.
L’insegnamento del Vangelo a volte rasenta l’ovvietà. Sandra Sabattini scriveva sul diario: “Ricordati, Sandra, niente di quel che hai è tuo. Tutto è dono”, e infatti le succedeva di uscire la mattina con un bel maglione (le piacevano i maglioni) e tornava con uno straccio addosso: aveva fatto cambio con chi glielo aveva ammirato. Sì, è santa, ma quanto a ‘sapere’ che niente è nostro non occorre chissà che intelligenza o virtù!
Un ragazzo molti anni fa, al fiorire dell’adolescenza e della curiosità mostrava interesse per Carl Jung, trovandovi il nesso fra psicologia e spiritualità. Gli ho chiesto dopo anni come andasse la sua ricerca. Mi ha risposto: “Macché! Ora guardo in faccia la realtà e non perdo tempo in chiacchiere!”. Ho inteso lì per lì che siamo noi a determinare la realtà, vale a dire che stabiliamo la realtà che corrisponde al nostro occhio, all’interesse celato. È un po’ quel che dice la fisica dei quanti: lo stato delle particelle dipende dal momento in cui le si osserva.
Da questo capisco la forza, cioè la virtù della speranza: una dynamis che fa accadere il bene sperato. Talché il solo augurio di bene per un amico richiede, perché consista, che se ne abbia fede, cioè che sia ‘sperato’. Così si ‘fa’ davvero il bene all’amico. A due sposi novelli si augura felicità. Pare un augurio scaramantico: che tutto vada sempre bene, che non succedano inconvenienti… Ma vuoi che non avvengano prove, stanchezze, imprevisti capaci di turbare l’equilibrio? La felicità non sta nella quiete, nell’assenza di spiacevolezze ma nell’amare e non solo per il coniuge. Cioè nel far contenti gli altri. Cosa rende contenti gli altri? Il sentirsi bene accolti, graditi, benvoluti.
È una prospettiva molto pratica e a portata di mano. È come trovarsi ad una festa in cui vedi ragazzi (sono più le ragazze) che ballano alla buona e saltellando al ritmo della musica ed altri, meno giovani, che se ne stanno seduti dicendo a sé che non sanno ballare, non hanno l’età, ci sono cose più serie a cui pensare… La mamma dello sposo era seduta con un piede ingessato, così zoppicando aveva accompagnato il figlio all’altare. Allora dei ragazzi l’hanno tirata su con tutta la sedia e portata in pista a dimenarsi come poteva per la gioia sua e di chi la vedeva. “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; abbiamo cantato dei lamenti e non avete pianto” (Mt 11, 17). Per dite a Gesù: stavolta è andata meglio!
Il Vangelo non fa discorsi moralistici, non esorta ad essere buoni, non ha interesse a temperare gli egoismi, neppure ad essere filantropi. Dice cose addirittura ovvie. Quale è il desiderio di ciascun essere che viene al mondo? Qual è l'augurio più frequente e tale da non restare frustrato ma realizzabile? Essere felici. Non è una questione di buon umore: si potrebbe pensare che è un dono naturale che non tutti hanno. I musoni pensano solo a sé. L’amare rende felici, e non è il titolo di una canzone.
Alcuni, molti si preoccupano del proprio aspetto, delle gambe, del seno, dei bicipiti e poi delle rughe degli anni… possiamo viverne anche mille non sarebbero mai bastanti a renderci felici. Facciano pure, ma non è lì il tesoro. Un giorno senza amare è un giorno non vissuto, perso, sottratto a Dio e al prossimo.
Gesù è paradossale per esser chiaro e non ammettere equivoci o vie di mezzo. Dice: tra un occhio, un piede, una mano e relativo scandalo, tra il miasma dell’infelicità e la vita, non essere sciocco: scegli te, scegli di essere felice, la vita.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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