Briciole dalla mensa - 20° Domenica T.O. (anno B) - 18 agosto 2024
LETTURE
Pr 9,1-6 Sal 33 Ef 5,15-20 Gv 6,51-58
COMMENTO
«I Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?"». Mangiare, anzi, «masticare» dice letteralmente; e bere il suo sangue: Gesù non poteva che stupirli con queste affermazioni. Al di là di una eventuale accusa di antropofagia, i Giudei rimanevano perplessi per il significato simbolico che essi davano ai termini «carne» e «sangue».
Nella Bibbia la «carne» è la vita dell'uomo, nella sua concretezza, fatta di cose belle, ma anche di fragilità e limiti. Un testo esemplificativo: «Ogni uomo (letteralmente: «carne») è come l'erba. Secca l'erba, il fiore appassisce, ma la parola del nostro Dio dura per sempre» (Is 40,6-8). Se la carne dell'uomo è come «l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno» (Mt 6,30), l’umanità è quest'esistenza così debole, come fa Gesù ad attribuirle addirittura la capacità di dare vita eterna?
Non meno stupore, per un ebreo, provoca la parola «sangue». Esso custodisce la vita, tanto che non si può assolutamente toccare anche il sangue di un uomo che ha commesso il peggior delitto, come uccidere il proprio fratello: va rispettato. Infatti Dio segna sulla fronte Caino, perché nessun uomo possa colpirlo indiscriminatamente. Dunque il sangue rappresenta la vita, esprime la sacralità della vita. Anche l’esistenza degli animali: se l’uomo uccide, per nutrirsi, deve però rispettare il sangue dell'animale. Tutto ciò esprime la durezza della vita dopo il peccato dell'uomo: per vivere bisogna uccidere un'altra vita, animale o vegetale che sia.
Ecco il contesto che ci mostra il significato simbolico: il nostro nutrirsi per vivere è reso possibile da una rinuncia alla vita: qualcosa o qualcuno che si è sacrificato per noi. Questa riflessione non ha lo scopo di crearci sensi di colpa, ma quello di vivere nella gratitudine.
Diciamolo con altre parole: ogni volta che ci sediamo a tavola, soprattutto quando banchettiamo per far festa, ciò che ci viene presentato come cibo è sotto il segno del dono. È qualcosa che si consuma per darci la possibilità di nutrirci e di gioire.
Purtroppo, la mentalità consumistica ci ha fatto perdere questa sensibilità: il cibo, appunto, «si consuma», togliendo ogni significato di donazione. Tutto viene consumato, senza il senso di dono e di gratitudine. Abbiamo perso l’attenzione all'amore di chi ce lo ha preparato per nutrire la nostra vita, donandoci, così, umanità. La premura come fretta ci ha fatto dimenticare la premura come cura dell'offerta.
Oggi si mangia in fretta, in cinque minuti, senza parlarsi, con la tv in sottofondo e guardando il cellulare. Predomina la fretta, il fine di far presto, per avere tempo per altre cose. Abbiamo smarrito la bellezza di un simbolo come quello del mangiare insieme. Ridurlo a un necessario consumo, per me rende volgare quello stare a tavola. Il rito del mangiare, come il rito dell'amore, come il rito religioso sono riti che esprimono una donazione, se no, sono aridi consumi (A. Casati).
Partecipare all'Eucarestia non può essere come un semplice atto di consumo: dobbiamo cogliere che in quel nostro mangiare c'è l'atto di donazione di Gesù, e questo deve portarci a stupirsi, fino a commuoversi. In quel rito c’è l’atto di dono di sé del Signore, per ciascuno di noi e per tutti.
E Gesù ne spiega "l'effetto": «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui». «Rimanere» è usato dal Vangelo di Giovanni anche con il significato di «abitare». Per Gesù, se si celebra un rito vero, con la sua simbologia, allora nasce una dimora. Se il rito è vero, succede come nell'amore: nasce la dimora. Se il mangiare non è solo consumare un cibo.
I primi discepoli che avevano seguito Gesù gli avevano chiesto: «Maestro, dove abiti?» E Gesù li aveva invitati ad andare con Lui, ed essi sono rimasti un giorno con Lui (cfr. Gv 1,37-39). Gesù invita anche noi: «Venite e vedrete». Se lo ascoltiamo, vediamo come il Signore Gesù abita uno stile, un modo di essere, abita il gesto della sua totale e gratuita donazione.
Se accogliamo quel gesto, se viviamo la sua simbologia di dono e non lo viviamo come consumo, allora Gesù ci garantisce la vita eterna, la pienezza di vita, la beatitudine della relazione perenne con Lui e con i nostri cari, e con tutti gli altri. Perché l'amore non si consuma, l'amore rimane per la vita eterna.
Alberto Vianello
Fate buon uso del vostro tempo perché i giorni sono cattivi. Di quali giorni sta parlando, i suoi? I nostri invece…
Paolo così esortava a non essere sconsiderati e a cercare cosa piace a Dio. Non si può essere sazi di sé stessi o di quel che può darci questo giorno che di per sé è insidiato dalla notte.
Bisogna che quel che può darci questo mondo non ci basti. “Siate affamati”. Del cibo che non perisce, non del pane che non sazia. Questo lo capiamo. I poeti, gli scrittori in generale raccontano la nostalgia dell’essere, spiegano che il male e la paura della morte sono somiglianti. I buoni libri contengono profezia e sapienza. Parola di Francesco.
Quel che non capiremo mai è lo scandalo del pane disceso dal cielo. Siamo propensi a riconoscere un uomo che si fa dio, perché estremamente virtuoso, buono e per tutto quel che è ammirevole. Ci è più difficile pensare ed accettare che Dio possa avere un corpo e farsi pane. Le resistenze dei Giudei lì presenti, che pure lo avevano seguito sono di tutti gli uomini. Non possiamo ‘comprendere’ Dio, ma esserne ‘sorpresi’. Non riusciamo a ‘capire’. (da ‘càpere’, far entrare nella mente) Gesù, convincercene come l’oggetto conquistato mediante un processo mentale, nel modo in cui procede la conoscenza.
Infatti come egli parla suscita lo scandalo. Ed è inevitabile, direi anche necessario. Quando afferma: “Io sono il pane disceso dal cielo… il pane che io vi do è la mia carne per la vita del mondo… chi mangia di questo pane non morirà in eterno”, non si può dire: Ah, ho capito sì tutto mi è chiaro ora. Queste parole di Gesù segnano il fallimento della mente umana. Fallimento, superamento, comunque è cosa che si situa sopra il nostro assenso. Tante volte il Vangelo è plausibile, anche l’amore al prossimo lo è, per quanto difficile, il Vangelo è pieno di buon senso, avvertiamo che lì si raccomanda la giustizia, la misericordia e così strappa il consenso anche ai non credenti, che infatti ammettono che Gesù è il più grande dei figli dell’uomo. Ma Giovanni ci toglie il gusto, foss’anche l’assenso compiaciuto. Qui si tratta di salvare la pelle cosa di cui l’uomo, anche il più dotto, non è capace.
La sapienza a cui esorta il libro dei Proverbi, il più ‘greco’ con il libro della Sapienza è necessaria per guidarci o per evitare di andare a sbattere, ma fino ad un certo punto. La parola di Gesù qui riportata da Giovanni con insistita chiarezza dice che la morte, la cui paura è all’origine dei peccati, si vince nutrendosi di Cristo, nell’Eucarestia. Che è lo scandalo che più scandalo non si può. Ma ben venga. Prendervi parte comporta che quell’altare di Cristo è buono per portarvi su la nostra incredulità, l’ignoranza, la resistenza, la durezza del cuore, la presunzione, la viltà. Ma già che ci siamo anche le nostre ferite, le prove riuscite e quelle fallite, l’amore non amato…. Sono le nostre offerte e quando il sacerdote proclama. “Questo è il mio corpo”, aggiungere sottovoce per parte nostra: e questo è il mio che ti offro.
Ci possiamo stare per una partecipazione non di maniera al suo sacrificio di amore.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
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