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Intessuti di umanità

Briciole dalla mensa - 20° Domenica T.O. (anno B) - 19 agosto 2018

 

LETTURE

Pr 9,1-6   Sal 33   Ef 5,15-20   Gv 6,51-58

 

COMMENTO

«Mangiare la mia carne»: sono così disarmanti, nella loro semplicità, le parole di Gesù riguardo al Pane di Vita da creare imbarazzo nel commentarle. Per ben sette volte, in soli otto versetti, Gesù invita proprio a «mangiare la sua carne», unito a «bere il suo sangue». I Giudei non capiscono e non accettano, tanto da mettersi a «discutere aspramente fra loro: "come può costui darci la sua carne da mangiare?"», ma Gesù continua a ripetere semplicemente il suo invito: non c'è da capire il "come", c'è solo da accettare l'offerta. Quindi è necessario, innanzitutto, accogliere il dono offerto. Il cristianesimo custodisce questo grande mistero rivelato: Dio non chiede nulla all'uomo, e, al contrario, gli dona Lui tutto, che è tutto Se stesso, e dona gratuitamente.
Purtroppo oggi funziona ancora una fede a pagamento: il credere è finalizzato ad acquistare meriti o evitare castighi. La verifica di questa non gratuità nei confronti della gratuità di Dio la si nota nell'atteggiamento di giudizio nei confronti di quelli "di fuori": “non si possono accettare senza condizioni, non si possono trattare al pari di noi...”. La parabola degli operai chiamati al lavoro in ore diverse rimane inascoltata perché scomoda: «Io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?», dice il Signore (Mt 20,14-15). Il dono è per me se riconosco che è per tutti, davvero tutti.

 

Gesù invita a «mangiare la sua carne e bere il suo sangue». È il dono della sua vita, che avviene nella Pasqua. Ogni Eucaristia è celebrazione della Pasqua e ogni volta che si fa la Comunione si partecipa alla Pasqua: evento di vita. Ma avviene che l'Agnello pasquale sia la «carne» del Signore Gesù. Il Vangelo di Giovanni ama usare questo termine per indicarci la condizione umana fragile e mortale del Figlio di Dio, alla quale partecipiamo. Tutta la divinità del Figlio si è progressivamente impregnata della povertà umana. Non è stata solo la nascita a dargli l'umanità: ma anche la sua crescita, l'impegno nel lavoro, nelle relazioni non facili, nella fatica del percorrere le strade impolverate per annunciare il Regno, nell'incomprensione e nel rifiuto subìti, nell'odio patito, fino alla passione e alla morte, ma anche nelle cose belle come ogni carezza e ogni sguardo, come la scoperta del creato e l'impegno a fare il bene, ecc. Davvero, quando si partecipa all'Eucaristia, si fa esperienza di tutto ciò che ha formato quella «carne» umana del Verbo divino. Perciò l'Eucarestia è l'incontro della nostra umanità con la dimensione così radicalmente umana del Figlio di Dio: nell'Eucarestia facciamo esperienza di Dio attraverso l'umanità vera e piena di Gesù Cristo. Non possiamo vedere Dio se non incontriamo la sua umanità.

 

Oltre all'insistenza sul mangiare, c'è quella sul termine «vita» (sei volte): «La mia carne per la vita del mondo». È una carne che fa vivere perché è stata un'umanità vissuta in pienezza: tutto quello che Gesù ha vissuto come uomo, sia di gioia che di dolore, rappresentava una situazione che lo rinviava al suo rapporto con il Padre. La vita a cui allude, quella che poi chiama «vita eterna», è l'esperienza della relazione con Dio Padre: questo è il paradiso che ci attende. Gesù, con il dono della sua umanità, ci apre a questa relazione, da vivere anche noi nella nostra carne: anticipo e caparra di quello che sarà la relazione piena con Dio, quando lo vedremo faccia a faccia, quando saremo fatti tutti d'amore come Lui è tutto amore.

 

Mi pare che ci sia un crescendo in ciò che avviene in chi «mangia la carne» del Figlio dell'uomo. Infatti, prima Gesù dice «avrete in voi la vita»; poi specifica che «avrete la vita eterna e io vi risusciterò nell'ultimo giorno». Poi aggiunge, continuando a insistere sulla necessità di «mangiare la sua carne», che chi lo fa «rimane in me e io in lui». Infine dice che «chi mangia me, vivrà per me», come Lui vive per il Padre che lo ha inviato nel mondo.
Dunque, «avere la vita» significa la vittoria definitiva sulla morte nella resurrezione, che è risurrezione della «carne», ovvero della nostra umanità personale concreta, come è stata la risurrezione di Gesù dai morti. La condizione di risorti comporta la reciproca inabitazione nell'amore tra la persona e Gesù Cristo, nella quale ciascuno riconosce totalmente se stesso proprio nella relazione con il Figlio di Dio. C'è, infine, la bellissima prospettiva del «vivere per Lui», che Gesù spiega facendo un parallelo con la sua relazione con il Padre: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me». Dunque, «vivere per me» significa riconoscere e vivere la relazione con Colui che si riconosce l'origine del dono che noi siamo. Anche il Figlio non si riconosce altro che nella sua relazione con il Padre, come Colui che lo fa vivere; a maggior ragione noi siamo chiamati al riconoscimento che, tramite il Figlio e a sua somiglianza, viviamo una vita intessuta di relazioni, con Dio e con i fratelli: nella sua umanità scopriamo la nostra umanità.
Credo che oggi sia in assoluto ciò di cui il mondo e le nostre società hanno più urgentemente bisogno: di umanità. Perché l'abbiamo perduta dietro a riferimenti che si vogliono far passare come assoluti, come "realtà, concretezza, misura delle cose, pensare prima a se stessi", ma che non lo sono. Così si trascura l'umanità: lo sguardo all'altro, riconoscendo che è innanzitutto un uomo come noi. Si è perso soprattutto quel "innanzitutto", con tutti i distinguo che oggi si fanno: «sì, però», «ma prima», «a determinate condizioni». Per un cristiano "umanità" vuol dire anche, e soprattutto, vedere Gesù nell'altro, vedere l'umanità di Cristo nell'umanità dell'altro, soprattutto se è povero, emarginato o rifiutato. Questo è, per noi, vivere l'Eucarestia come «carne» di Cristo.

 

Alberto Vianello

 

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