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Danzare e cantare di fronte alle meraviglie del Signore

Briciole dalla mensa - 3° Domenica di Avvento (anno A) - 14 dicembre 2025

 

LETTURE

Is 35,1-6.8.10   Sal 145   Gc 5,7-10   Mt 11,2-11

 

COMMENTO

 

Un profeta anonimo del VI secolo a.C. canta il ritorno dall’esilio di Babilonia con immagini che hanno la forza di risvegliare la speranza anche nei lettori di oggi. La prima immagine è anche la più immediata tra quante possono presentarsi al momento in cui la carovana degli esuli inizia il suo pellegrinaggio: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa». L’idea del deserto che fiorisce e si trasforma è suggerita dalla memoria dell’antica fede religiosa del popolo. Attraverso l’esperienza del deserto Israele è giunto a stringere alleanza con Dio; nel deserto ha ricevuto la Legge; nell’aridità di luoghi senza vita ha ottenuto il cibo e l’acqua necessari per la propria sopravvivenza. Il deserto non è stato solamente il luogo della prova e di indicibili sofferenze, ma è apparso piuttosto come l’epoca dell’affettuosa intimità con Dio, un tempo in cui anche una terra riarsa si era trasformata in giardino.

 

Esultanza, gioia, canto: il profeta immagina la scena della partenza e del cammino nel deserto come una solenne azione liturgica, segnata dalla lode e dal ringraziamento. Allora, anche l’incerto sentiero nel deserto diventava una “via santa”, e lo sfiduciato poteva riprendere coraggio, rendendo salde le ginocchia vacillanti. Il cammino nel deserto diventava una meravigliosa avventura nella quale tutti erano attori principali, anche il cieco, il sordo, lo zoppo e il muto. Festa per tutti!
Osservo che molti vivono come se fossero ciechi, incapaci di vedere l’offerta di un cambiamento che sta davanti a loro. Rimangono sordi alla parola che può ridestare la loro vita. Molti stanno come immobili, con i piedi di piombo che impediscono loro non solo di «saltare come un cervo», ma anche di spostarsi leggermente in avanti. E sono muti, privi di parola, di canto, di sorriso, perché sono come impietriti dalla paura che qualcosa cambi intorno a loro. Il profeta grida con forza: «Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete!”». Allora, usciamo, usciamo! E danziamo la vita, abbracciati ai ciechi, ai sordi, agli zoppi e ai muti! E vedrete che sarà la danza più bella, profezia di un mondo mai visto fino ad ora, se non nei gesti e nelle provocazioni di Gesù di Nazareth; e di tutti i “folli” come Lui.

 

«Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore»: così l’esortazione dell’apostolo Giacomo. Viviamo in un mondo nel quale la ricerca del bene possibile per tutti sembra un desiderio destinato a morire sul nascere, ucciso dai maestri del profitto e dai professionisti della rapina, con la forza brutale delle armi o con la violenza del diritto costruito a loro misura. È il diritto dei più forti. Spesso la forza della legge è la legge della forza. C’è bisogno di saggezza e di pazienza, intesa non come rassegnazione, ma come decisa e perseverante resistenza, soprattutto in tempi difficili come i nostri. Non è una cosa impossibile. Il nostro tempo ci dona moltissime figure di donne e uomini resistenti fino alla morte: sono per noi degli indicatori stradali, luci nella notte, finché non spunterà il giorno.
Come immagine l’apostolo Giacomo ci pone dinanzi la figura del contadino: egli lavora pazientemente il suo campo, in attesa dei frutti che verranno, dopo che «le prime e le ultime piogge» avranno irrigato la terra. E continua a seminare pazientemente, anche dopo una rovinosa tempesta. La paziente costanza del cristiano è un atto di coraggio e di forza, che trova la sua radice nel cuore abitato dallo Spirito. Ѐ come la casa costruita sulla roccia, che non teme i tempi della calamità e dell’iniquità.
La prova quotidiana che abbiamo imparato a vivere radicati nella speranza della venuta del Signore, con incrollabile fiducia, con paziente attesa, è il fatto che non ci lamentiamo più gli uni degli altri. Il lamento è il segno più eloquente della nostra miopia, che non sa vedere lontano e costruire il futuro.

 

«Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?». Giovanni è in carcere perché ha osato criticare la cattiva condotta di un potente. Cosa sempre più rara al giorno d’oggi, quando assistiamo a vergognosi pellegrinaggi verso i palazzi del potere da parte di miriadi di adulatori di corte. La speranza di far carriera all’ombra di qualche cupola è purtroppo conosciuta anche nella Chiesa.
Giovanni no, non è abituato al linguaggio politicamente corretto e usa parole forti, se non addirittura violente: «Razza di vipere! La scure è posta alla radice degli alberi. Dopo di me viene uno che è più forte di me!». Sì, il tratto caratteristico di «colui che viene» doveva essere la forza. Il Battista vede in lui il terribile giudice che estirperà con il fuoco inestinguibile tutti i peccatori che non si saranno pentiti dai loro peccati e non avranno cambiato vita prima che sia troppo tardi.

 

Ma l’apparire sulla scena di Gesù di Nazareth non corrisponde affatto all’idea che il profeta del deserto si è fatto del futuro Messia. Giovanni vive momenti di vero smarrimento: «Dobbiamo aspettare un altro?». È come aspettare ciò che non avverrà mai. Ci sono certe opportunità della storia che, se lasciate cadere, non si presenteranno mai più. Il profeta, che non abita nei palazzi dei re e non veste abiti di lusso, il più grande tra i nati di donna, è profondamente deluso.
Che cos’è che, nella vicenda di Gesù, non corrisponde alle aspettative giustizialiste di Giovanni? Sono esattamente le «opere di Cristo» che lo spiazzano e lo disorientano: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo». Le opere di Gesù attualizzano l’antica profezia del profeta anonimo che scrive sotto il nome di Isaia. Le opere di Gesù sono l’irruzione del regno di Dio in mezzo a noi. Le opere di Gesù sono la carezza di Dio verso tutti gli esclusi, gli impoveriti, i peccatori.

 

Per quanto è nelle mie possibilità, mi basterebbe incominciare dall’opera che a prima vista sembra la più facile, ma che è anche la più disattesa: annunciare il Vangelo della misericordia ai poveri, con parole umili e vere, con gesti degni dell’uomo. Il resto, ne sono sicuro, verrebbe tutto di seguito, fino alla meraviglia dei morti che risorgono. Il segreto sta nel non scandalizzarsi della proposta di Gesù di Nazareth e del fatto che Egli intende la sua missione nel mondo in maniera diametralmente opposta da come l’aveva immaginata il Battista. E da come continuano a pensarla anche tanti nostri contemporanei, che brandirebbero volentieri la croce per farne una spada, Gesù si presenta non come il «forte» che dispiega contro i peccatori la potenza vendicatrice della collera di Dio, bensì come la manifestazione della inaudita misericordia del Signore verso tutti. È la rivoluzione dell’amore, della tenerezza, che si compie nell’umiltà e nella debolezza. Lo scandalo che ci minaccia è l’eccesso di sterile zelo, che ci rende ciechi e incapaci di vedere i segni della salvezza in atto, anche sul volto di chi non ti saresti mai aspettato. Siamo muti personaggi che non hanno imparato a danzare e a cantare di fronte alle meravigliose opere del Signore. Avvento è anche non rimanere prigionieri di noi stessi e delle nostre idee.
Papa Francesco ci avvertiva che la realtà è più importante dell’idea. Anche delle nostre idee religiose.

 

Giorgio Scatto

giorgio.scatto@gmail.com

 

 

 

 

 

 

 

Che passa tra chi crede e chi no? La questione è molto viva perché stando da questa parte di mondo si ha spesso a che fare con chi prova disagio nel sentir parlare di Cristo e della Chiesa. Allora questa è un’occasione per rientrare in sé stessi e ritrovare le ragioni del credere. Insomma l’incredulità altrui e i dubbi propri non fanno che bene.
Abbiamo visto una coppia, ormai datata. Convivono nella stessa casa ma non condividono la stessa camera e lo stesso letto. Si vede bene allora che l’uno o l’altra è rimasto fermo allo schema acquisito nella prima età: problemi con la figura genitoriale (maschile o femminile) e chiusura alle esperienze di cambiamento. Molti non sanno perché si sposano, pensano ad una sistemazione, ma è l’inizio di un cammino, una ripartenza per diventare una carne sola. È la Bibbia. Senza di che non c’è evoluzione, non c’è ricerca. Le situazioni sono molte e diverse ma in tutte c’è il disagio di pensare al testo sacro, a Dio, come anche il rifiuto di mettere in discussione i concetti acquisiti. A proprio arroccamento ci si appella al razionalismo ma non si usa la ragione.

 

Ora il bello è che la stessa scienza, al contrario dello scientismo, va affermando con stupore che la realtà è molto più di quella che si crede. Le leggi stesse che descrivono il funzionamento della materia non sono più valide nel microcosmo. Si parla di particelle, di onde e di quanti che interferiscono fra loro in forme paradossali. I ricercatori sono i primi a sorprendersi nell’osservare che materia e spirito si compenetrano. Citerei solo un nome, Faggin, inventore dei microprocessori, che associa i quanti alla coscienza. Prima ancora Theilard de Chardin.

 

Basta. Che vuol dire? Vuol dire che proprio chi segue le regole della conoscenza razionale e scientifica chiude la realtà al già previsto. Quanti, fermi al concetto acquisito della loro realtà si precludono la possibilità di cambiamento. Perché? Perché è fatica e dolore mettersi in discussione, andare in minoranza e l’orgoglio, stupidamente, dice che il problema è altrove. La ragione non dimostrerà mai l’esistenza di Dio ma neppure la negherà. Dio, poi, non lo si conosce che con il cuore. E il cuore è uno strumento di conoscenza non la sede, come banalmente si vuol dire, delle emozioni. Che si usi la ragione per conoscere ce l’hanno insegnato i Greci e noi ne siamo eredi, ma è il cuore la sede propria della conoscenza: conoscere ed amare sono termini corrispondenti nella Bibbia.

Una ragazza diceva: io non parlo se non con chi mi vuol bene. Ma il cuore dei superbi e degli ingessati è incapace di conoscere perché è incapace di amare. Insomma si deve smettere di considerare amore e cuore come rime per canzonette. Sono una roba seria. La scienza stessa, restando nel proprio ambito, con le sue recenti scoperte ci sorprende e magari ci insegna ad essere aperti alle novità, all’impensabile: fra tutte Dio si fa uomo in Maria. Perché no? Se le relazioni di affetto e di amore, di rispetto e di stima ecc, sono le più umane a noi congruenti, perché non lasciare che l’Amore stesso, l’Autore del mondo realmente, non in mito ma in persona è sceso fra noi per dirci come stanno le cose e sorprenderci, spezzando le catene, aprendo le prigioni permettendoci di volare via, in alto come “uccelli scampati dal laccio del cacciatore” (Sal 124)?
Penso a quei due, a noi due: quante energie spese nel soffocare la vita, nell’impedirci di amare, nel procurarci malessere. Ne vale la pena? Sarà meglio che Gesù venga.

 

Valerio Febei e Rita

 

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