Briciole dalla mensa - 19° Domenica T.O. (anno B) - 11 agosto 2024
LETTURE
1Re 19,4-8 Sal 33 Ef 4,30-5,2 Gv 6,41-51
COMMENTO
Elia cammina nel deserto, fuggendo dai suoi nemici, poi si ferma, «desideroso di morire» (prima Lettura). È deluso, perché Dio non l'ha sostenuto nella sua battaglia per la purezza della fede. Ed è affaticato per un cammino «troppo lungo» per lui: quello che lo porta all'incontro con Dio.
Se a spaventarci è la fatica del cammino che ci resta da fare, fatica di vivere, di affrontare le responsabilità, allora il cammino si fa arduo, non ci viene incontro nulla dal cielo. Spesso sono proprio questi i timori che ci tolgono le forze e ci fanno precipitare in una delusione ansiosa: il timore della fatica, il timore di essere vinti dai prepotenti, il timore di soffrire, di morire. Sono paure che ci tolgono la forza della vita, ci provocano depressione, ci rinsecchiscono.
Da Dio non ci si può aspettare la fine magica e portentosa delle fatiche del cammino, delle contrarietà, dei dolori, della morte. Da Dio puoi sperare e attendere una rinnovata voglia di vivere, che sorge dentro se stessi, come la rinnovata forza che viene dopo aver mangiato un buon pane e bevuto dell'acqua: si ritrova la voglia di vivere e di camminare. Questo è il segno che Dio ha mandato un suo angelo (la sua grazia) per te.
Questa è la stessa incapacità di comprensione dei Giudei di fronte alla rivelazione di Gesù: «Io sono il pane disceso dal cielo» (Vangelo). Incomprensione che si mostra nella mormorazione. Mormorare è un gran vizio, perché rovina le relazioni fra le persone seminando critica e giudizio negativo. È un parlare nascosto, alle spalle, vile, contro qualcuno, ad altri, per cercare alleati e complici. È ciò che mina di più un contesto comunitario.
La mormorazione riguarda proprio il presentarsi di Gesù come un Mosé ancora più fortemente in contatto con Dio e quindi capace di procurarci i suoi favori. Ma qui essi non vedono grandi segni, non li rende un grande popolo, come i romani, invece rimane la fatica del vivere e la paura di morire. Dio è onnipotente, ma Gesù è impotente, è il figlio di Giuseppe, di lui conoscono il padre e la madre, è un uomo qualunque.
In effetti, in Gesù assistiamo a un Dio che scende, si spoglia fino a svuotarsi di se stesso, un Dio che condivide, invece che un Dio che si impone. Un Dio che si fa pane disceso, per ciascuno di noi, per la vita del mondo. Ogni giorno il nostro Dio scende e si spoglia della sua onnipotenza, e si fa pane, eccelsamente simboleggiato nell'Eucarestia: «Questo è il mio corpo… questo è il mio sangue», estremo svuotamento e dono di Dio.
Così Dio si fa pane nell'umanità di Gesù non per sollevarci ed eliminare la fatica del cammino, ma per stimolarci alla voglia di vivere, di camminare, per diventare, noi tutti, pane che nutre e cambia il mondo, accogliendo la realtà di un Dio che è piccolo.
Una piccola ebrea, nel campo di concentramento, davanti al dramma della Shoah, entra in dialogo con Dio: «Una cosa diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te in noi, mio Dio. E forse possiamo contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini» (Etty Illesum, Diario 1941-1943, p. 169-170). Ecco il modo per accogliere quel pane disceso dal cielo e camminare con la sua forza.
Quello che scandalizza e fa mormorare i Giudei è la familiarità che hanno con Gesù: lo conoscono e conoscono la sua famiglia. È una "normalità" che non viene tolta, superata dall'eccezionale di Dio. È nella semplice umanità di Gesù che si deve riconoscere ciò che lo supera. L'identità divina di Gesù passa per la sua umanità, per una disarmante assenza di mistero, e quindi per una normalità di rapporto, che risulta così sconcertante.
Invece, è proprio quel Gesù, quell'uomo, che è il Messia, è il Figlio di Dio. La sua identità rimane per loro un enigma e uno scandalo, perché rimane ridotta alla sua ferialità, e così si trascura l'essenziale, il suo mistero, il rivelarsi di Dio dentro la semplice misura umana.
Alberto Vianello
La liturgia racconta drammi. Elia s’è dato da fare per esortare, avvertire, dire parole non sue, ed è esausto, le gambe non reggono, lo vogliono morto. Se non di spada morirà di inedia, magari durante il sonno, il caldo la sete la fame lo sfiniranno. Eutanasia. Ma non va così.
Certo, Elia ha ragioni nobili, lo zelo per il Signore, per essere costretto a dire che non ne può più, ora basta. Ma non è necessario essere come Elia perché la vita di ciascuno sia un dramma, che si arrivi a dire basta, finiamola qui.
Preghiamo da una vita, o da mezza, la stessa preghiera: Dio, o tu autore della mia vita, magari Padre, vedi come mi ha ridotto Gezabele, porto le storpiature delle maledizioni nelle pieghe della mia anima, del mio carattere, non so fare il bene che vorrei per i miei, per la gente con cui ho a che fare, se Elia volevano farlo fuori per aver parlato di Dio io neanche so parlare di religione che nessuno ne sente più il bisogno… Qualcuno dirà che essere ignorati è già qualcosa! Ma che vale questa parvenza di vita?
“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Ma come funziona? Come avviene che io trovi giovamento da questa parola, che io mi sappia benedetto nelle mie infermità così che sia liberato dai loro effetti? Hanno scavato profondi solchi nella carne della mia psiche e il mio umore ne risente ancora, mi rende incerto, preoccupato, infelice… Comunque sono perplesso non diversamente da quella gente che s’era avvicinata a Gesù ma ora che lo sente parlare di questo pane che rigenera, riempie di senso, dà la vita per sempre, libera le anime dalle oppressioni fa tre passi indietro.
Ma non è il figlio di un falegname? Il fatto è che il figlio del falegname non diminuisce la dose, non va incontro alla loro difficoltà ma anzi ci dà dentro, come per dire: non gliela fate senza passare per lo scandalo della mia carne, pari allo scandalo della vostra cecità, dei segni che non vedete, delle risposte che non sentite, pari allo scandalo del vostro dolore, del vostro pianto che nessuno ascolta… Basta, bisogna volgersi altrove.
Allora colpisce più duro: non ne avrete nessun riscontro sensibile, ma la mia carne e il mio sangue vi salvano per l’amore che ci metto. Di questo avete bisogno e non lo sapete.
No, qui Gesù non è politicamente corretto, non è un conversatore persuasivo. Non intende usar parole per convincere, qualche volta lo ha fatto, ma ora rompe con le mediazioni. Senza di me siete persi. Occorre farsi violenza per vincere lo scandalo. Del resto verrà la morte e vi esproprierà.
La liberazione da quel che è supponenza e avversione a Dio e da tutto il male di vivere conseguente, è possibile. Già. Ma come?
Prendere tutto di sé, andare a Messa e al momento giusto dire: io non ho nient’altro da darti: questa è la mia intelligenza, questa è la supponenza con cui ti resisto, questi sono gli scarsi risultati, o peggio, del loro impiego. Ne faccio volentieri scambio con il tuo corpo e il tuo sangue.
Valerio Febei e Rita
Monastero di Marango
Strada Durisi, 12 - 30021 Marango di Caorle - VE
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