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Comunione umana

Briciole dalla mensa - 3° Domenica T.O. (anno C) - 26 gennaio 2025

 

LETTURE

Ne 8,2-4.5-6.8-10   Sal 18   1Cor 12,12-30   Lc 1,1-4; 4,14-21

 

COMMENTO

Il Vangelo di Luca è dedicato a Teofilo. Nome bellissimo, perché significa «amato da Dio»: e già qui c'è tutto il Vangelo. Che è dunque stato scritto perché noi tutti, ognuno di noi, accogliamo questo buon annuncio: tutti destinatari del libro, del Vangelo, che è come un segno d'amore di Dio.
Mi piace la serietà e la rigorosità di Luca, il quale dice a Teofilo (letteralmente): «Avendo seguito da vicino dal principio ogni cosa, ho deciso di scrivere a te accuratamente con ordine». Il Vangelo è un'assoluta fedeltà alla narrazione di una storia: non è una favola, un mito; non è nemmeno un trattato di teologia o un compendio di morale. È la storia di Dio con gli uomini: storia concreta, fatta di parole di consolazione e incoraggiamento, di carezze, di sguardi d’amore, di compassione, di fraternità.

 

Ed è ciò che Gesù compie, nel racconto della seconda parte del brano evangelico: presentare il suo "programma" che consiste proprio nel narrare la storia di Dio, all'inizio della sua attività pubblica, nella sinagoga di Nazaret. Questo paese è il luogo dove era avvenuto l'annuncio dell'angelo a Maria e, quindi, l'Incarnazione. Era poi il luogo dove Gesù era cresciuto: dunque Nazaret rappresenta la formazione dell'umanità del Figlio di Dio. Ed è quindi particolarmente significativo che proprio lì Gesù vi annunci il suo programma di voler prendersi cura dell'uomo, della sua fragilità: lì dove ha imparato l'umanità, ha conosciuto il suo limite e il suo bisogno di Dio e della misericordia.
Ed è altrettanto significativo che questo inizio avvenga subito dopo il battesimo al Giordano e le tentazioni. Cioè dopo che Gesù ha mostrato la sua solidarietà con la condizione peccatrice dell'uomo e dopo che ha sperimentato la prova e l’ha superata accettando e assumendo la sua fragilità, e affidandosi a quella che, anche per lui, è la Grazia divina: il dono gratuito e immeritato che viene dal Padre, per la nostra debolezza.

 

Questa è stata la preparazione catechistica e teologica di Gesù, prima di cominciare a predicare, a partire dalla sinagoga del suo paese. Una scuola che lo ha formato a conoscere l'uomo, a condividerne le bellezze, ma anche il limite e la fragilità; ad annunciare a questo uomo concreto la buona notizia, un Vangelo che dunque corrisponde al bisogno reale della storia.
Ma Gesù non inventa nulla: trova nella parola di Dio il senso del suo essere e della sua vocazione, dentro il grande progetto del Padre di prendersi cura dell'uomo. Infatti Gesù cerca e legge un passo di Isaia: un passo che lui conosceva, e che lo interpreta, che interpreta la sua vita. E sceglie il passo omettendo di leggere un versetto, quello terminale: «Il giorno di vendetta del nostro Dio»; e rimane solo: «… a proclamare l'anno di grazia del Signore». Sono queste le parole della Scrittura che maggiormente dicono Gesù, dicono il volto di Dio, dicono il progetto del suo Regno.
Quando diciamo, nel Padre Nostro, «venga il tuo Regno», invochiamo proprio questo. Auspichiamo che nel mondo vengano i gesti della liberazione per i poveri, per i prigionieri, per i ciechi, per gli oppressi: donne e uomini che non attendono più nulla, forse neppure Dio. Gesù viene per loro, in mezzo a loro: loro sono il senso della sua presenza, e il fine della sua azione. È questo il Vangelo. Questa scena all'inizio dell'opera pubblica di Gesù è il senso di tutto. È quello che bisogna stamparsi nel cuore, perché sia chiaro a tutti chi è Dio, e che cos'è il suo Regno, e chi sono i veri discepoli.

 

Nella seconda Lettura, Paolo paragona la comunità cristiana (e, potremmo dire, la comunità umana) a un corpo. Sono immagini che immediatamente rivelano la realtà nella molteplicità e nell'unità insieme. Il corpo è composto di membra diverse. Innanzitutto, il riconoscere la diversità rispetto ad un altro non è motivo per non appartenere al corpo: la mano vi appartiene anche se non è un piede o un occhio. In seconda istanza, ogni membro permette una facoltà diversa: se, per esempio, tutto il corpo fosse occhio, non ci sarebbe l'udito.
In terza istanza, ogni membro, dotato di una facoltà e di una funzione, deve riconoscere il valore delle altre funzioni, fornite dalle altre membra, altrimenti il corpo non potrebbe essere. Ed è quindi bellissimo il fatto che ogni membro ha bisogno degli altri: il corpo esiste nella sua unione a partire dal riconoscimento della propria fragilità, del proprio limite, e quindi del bisogno dell'altro.

 

Ma dal corpo Paolo trae altri elementi ancora più significativi per la comunione umana. Osserva che «le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie». È un grande insegnamento per il nostro oggi: vivere una Chiesa, una società dove non si scarti chi è debole nella fede o nella morale, chi non si afferma nel potere, nel denaro o nel successo. Il corpo mostra che ciò che è necessario - e quindi va essenzialmente custodito - è debole.
Paolo ancora osserva che trattiamo con particolare rispetto e decenza ciò che è meno decoroso e decente.

 

Infine, la proclamazione di fede più grande con la quale ci dobbiamo confrontare: «Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre». La concezione di fede è riconoscere la volontà di Dio nel dare maggiore onore a ciò che non ne ha: ed è, appunto, ciò che Gesù ha proclamato come sua missione con il brano di Isaia letto nella sinagoga di Nazaret. Ed è questo onore datto ai piccoli che conferisce unità al corpo, perché vi si instaura la comunione d'amore, che consiste nella dinamica di relazioni nelle quali ci si prende cura delle persone.

 

Alberto Vianello

 

 

Il popolo radunato da Esdra, lo scriba, e piangeva alla lettura del libro della Legge, il suo patrimonio ecco chi siamo: la religione di un popolo ha sempre definito l’identità di quel popolo, al netto delle incoerenze. Le società moderne (occidentali), da molto tempo vanno sostituendo quella tradizione con i valori della democrazia, che in buon parte sono la traduzione in campo laico degli stessi principi religiosi, com’è evidente nella Costituzione italiana, per esempio. Ad un popolo sguarnito, immemore dopo la prigionia di Babilonia, contaminato da usanze pagane, la Legge richiamava l’identità perduta. “Ricordati chi sei!”, diceva il Re leone al piccolo Simba.

 

Per quanto, nel popolo di Dio, nella Chiesa e non solo a Corinto, come descritta da Paolo, ci dovevano essere molti mal di pancia: chi fa cosa o chi è cosa. Questa situazione ricorda una circostanza analoga nella storia di Roma, allorché a fronte di aumentati carichi e doveri i plebei non ricevevano pari diritti e minacciarono di andarsene per i fatti loro. Menenio Agrippa, aveva utilizzato la stessa immagine del corpo costituita da molte membra unite in funzione di un unico stato, che appunto ritroviamo nella Lettera di Paolo ai Corinti.
Due questioni. La prima: col mutare dei tempi, situazioni e culture, nella Chiesa, sempre reformanda, si torna necessariamente a chiedersi cosa, come e chi. Vale a dire: come essere Chiesa e come, compiti a parte, ridare oggi primato all’unità visibile del corpo di Cristo, alla vita comune, all’amicizia fraterna. È il tema del Sinodo attuale.

 

La seconda questione è parte integrante della prima e riguarda le membra più deboli, la parte del corpo, cioè della chiesa, che è più impegnativa e meno appetita. Dice Paolo: “Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno”.
Per la verità la cura dei deboli, degli emarginati, dei poveri abbandonati è parte essenziale del cuore della Chiesa. Don Oreste Benzi, recentemente, si è spinto a riconoscere che queste membra sofferenti sono la parte più preziosa del patrimonio cristiano, perché svolgono ancora oggi la funzione espiatoria. Su di essi, non per colpa loro, ricade il peccato del mondo e lo pagano, lo espiano e quanti si occupano di loro anch’essi liberamente partecipano a quella espiazione. Da questo punto di vista quelli che in vario modo e per diverse cause patiscono le contraddizioni la violenza, l’incuria, l’indifferenza della società, senza reagire, né potrebbero, sono il cuore di Cristo nel momento della sua gloria. Possiamo ben dire che nella vita e nelle opere di alcuni Profeti e Santi, la rivelazione Cristiana procede e si declina chiarendosi man mano.

 

Luca che all’occhio clinico essendo medico, quindi osservatore meticoloso, riprende la narrazione delle vicende fin dall’inizio e le svolge con ordine, per dimostrare al caro Tèofilo, amante di Dio, la fondatezza della fede in Gesù, ciò vale anche per noi. Del resto non c’è conoscenza che in noi avvenga senza una trasmissione fedele dei fatti. La credibilità del traduttore o del docente, stabilisce la veridicità del contenuto insegnato, come è vero anche oggi e gli studenti lo sanno.
Del resto non c’è altro senso o ragione nel leggere il Vangelo se non quello di renderci contemporanei ad esso. Siamo anche noi nella sinagoga di Nazaret e seduti vediamo l’inserviente portare il rotolo, Gesù che lo apre e legge Isaia, sedersi e poi dopo una lunga pausa ascoltiamo il lettore da cui si attende com’è d’uso un breve commento. Che stavolta è dirompente. La promessa si compie oggi. Il lettore Gesù dice a me che quella Scrittura si compie in Lui adesso. Questo ‘adesso’ duri in eterno.

 

Valerio Febei e Rita

 

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