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Un Pastore che non ama i recinti

Briciole dalla mensa - 4° Domenica di Pasqua (anno A) - 30 aprile 2023

 

LETTURE

At 2,14.36-41   Sal 22   1Pt 2,20-25   Gv 10,1-10

 

COMMENTO

Questa quarta domenica di Pasqua è sempre dedicata alla figura di Gesù «buon pastore». È il Risorto che conosce il gregge dell’umanità. Egli, a differenza dei falsi pastori, entra nel recinto delle pecore, attraverso la porta. C'è un guardiano del recinto che custodisce le pecore e apre soltanto al pastore. Questo guardiano è Dio Padre. È lui che dà libero accesso a Gesù che passa attraverso la porta.
Gli esegeti fanno notare che qui l'evangelista Giovanni per dire «porta» non usa il termine che indica la porta grande della città, ma un altro che indica la porta piccola, stretta, quasi a suggerire che Gesù la sua legittimità di pastore se l'è conquistata con la Pasqua, con la sua morte e risurrezione, che sono dunque la porta che si chiude e si apre, la porta stretta. Questo fa la differenza tra Lui e i falsi pastori, portati, più che altro, a servirsi del gregge anziché a servirlo, a vivere la loro falsa religiosità, anziché a vivere per gli altri. Gesù, per passare quella porta piccola, stretta ci ha lasciato la vita.

 

Anche «recinto» risulta particolarmente evocativo. Infatti il termine usato non si riferisce normalmente alla recinzione dell'ovile, ma al vestibolo che sta davanti al tempio. Quindi conferma che la porta che immette nella comunione con Dio non è più il tempio di Gerusalemme o tutte le forme di "tempio" che separano religiosamente, anche oggi, le persone, affermando un Dio lontano e ieratico. Ma è il Cristo morto e risorto: cioè Lui è contemporaneamente il mediatore della salvezza e la stessa salvezza
Ma c'è un altro termine che ribadisce la "rivoluzione religiosa" del «buon pastore»: «Il ladro non viene se non per rubare, sacrificare (letteralmente) e distruggere». Gesù è venuto ad abolire la logica dei sacrifici, cioè di ogni dinamica, tipica di una certa religiosità, che consiste nel togliere la vita in nome di Dio. È il servirsi delle persone per fini religiosi, è l’usare il nome di Dio e la religione per fare violenza, è toglie la libertà alle persone dando forma nuova agli antichi sacrifici.
Perché lo "stile" della fede è il dono, non il sacrificio; è la generosità, non la rinuncia; è la gioia della responsabilità e della gratuità, non la tristezza del dovere della privazione.

 

E ci sono altri criteri che lo identificano come il vero pastore: come il «chiamare le pecore, ciascuna per nome e condurle fuori». L'essere pastore, da parte di Cristo, passa attraverso questa intimità del nome. Il pastore del Vangelo non è quello dei grandi raduni, dove ognuno si scolorisce in una massa indistinta di volti, dove domina, assoluta, l’anonimità, l'estraneità. No, le pecore sono chiamate una per una. Così come il pastore è riconosciuto - anche questo è bellissimo - dalla sola voce: le pecore la riconoscono tra mille, tanta è l'intimità. C'è dunque un rapporto personalizzato, non è l'ufficio che conta, è la relazione. Anche con Gesù, come con i fratelli e le sorelle. Il calore delle relazioni!
«Chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori». Anche questo è un criterio che ci conquista all'amore per il Signore Gesù: ci conduce fuori, fuori dei recinti, in spazi di autentica libertà. Rimane il sospetto su una certa prassi pastorale, dove il pastore abita il recinto, gode del recinto, raduna sempre dentro, dentro le strutture ecclesiali. «Entrerà e uscirà» è scritto «e troverà pascoli». È la rivoluzione di un certo modo di pensare, secondo il quale i pascoli, quelli buoni, sono solo dentro.

 

E ancora: «Quando ha condotto fuori le sue pecore, cammina innanzi a loro…». Gesù, il pastore del Vangelo è avanti, apre cammini: lo vediamo avanti a segnare una via, a incoraggiare, a significare una presenza che rassicura. Perché le pecore «abbiano la vita in abbondanza», cioè a una dimensione di pienezza inaudita e impossibile, la vita stessa di Dio nell'uomo. La Chiesa è gregge di Cristo e Lui solo è il Pastore, la Chiesa è ovile di Cristo e Lui solo al Porta. Una Chiesa che pensa se stessa come a realtà compiuta rischia di produrre situazioni nelle quali si riconosce a fatica la presenza del Signore.

 

Il «buon pastore spinge fuori tutte le sue pecore». Egli le avvia ad un cammino di esodo, le conduce alla libertà. Le porta a vivere in nome proprio, le sprona ad assumere la responsabilità della propria vita. Se stare dentro il recinto permette loro di vivere una necessaria custodia, però la vita va vissuta fuori dai recinti, insieme a realtà diverse, anche non omologabili alla religione, dove l’esistenza si accresce nel reciproco scambio avendo in comune la passione e la ricerca per una vita più piena. È fuori dai recinti che le pecore sperimentano la guida e la cura del pastore. Vuol dire stare nel mondo condividendo con gli altri uomini la passione per la vita umana, avendo come guida e sostegno la convinzione di fede che Dio crede nell'uomo tanto da donargli la sua stessa vita, facendo diventare la vita di Dio la stessa vita umana.

 

Alberto Vianello

 

 

Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede”, così Paolo a Timoteo (2Tm 4,7) alla vigilia della sua morte. Quel che conta è ‘conservare la fede’. Si deduce che Paolo non ritiene la fede una roba scontata, decisa o acquistata una volta per tutte. Ci vuole una ‘buona battaglia’ che si rinnova ogni giorno. Ogni giorno si riprende la preghiera sennò a sera non ci si ricorda di essere cristiani. La buona battaglia è già una questione interiore: la fede in Cristo Signore va alimentata e la Parola è il luogo più adatto, a portata di mano come lo è una Bibbia, letta magari secondo la scansione liturgica. Vale allora come ora.

 

In Atti 2 Pietro, e non solo, è un altro da quel che era stato la notte dei galli. Usciti dal rifugio con clamore grande sembrano ubriachi. Babele, l’arroganza della torre, aveva disunito, Pentecoste riunisce: il messaggio raggiunge tutti. È il kerigma, il centro dell’annuncio urlato perché tutti lo conoscano. “Sappia con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”. Nudo e crudo. Un pugno allo stomaco. Immagina te, ora: c’è la risposta al tuo male di vivere, al peccato… ‘Quale peccato?’. Già qui il primo ostacolo, inizia la resistenza.
Nella sua prima lettera Pietro richiamando Isaia rincara: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti”.
‘Al mio peccato ci penso io, c’è mica bisogno di qualcun altro che paghi per me, per cosa poi?! Cos’è questo abbraccio così appiccicoso e contaminante? Umano, troppo umano (ancora Nietzche). Distanza, per favore!’. “Che abbiamo a che fare con te, Gesù Nazareno?”, così il diavolo (Lc 4, 34).

 

Non ci meravigliamo delle nostre resistenze. Del resto fu sempre Pietro a dire: “Tu non mi laverai mai i piedi!”. Immaginiamo Gesù che sospira: “Se non ti laverò non avrai parte con me”. Come dire: “Non gliela fate da soli. Non potete darvi la vita”.
‘Ma noi viviamo nel duemila e rotti, sappiamo com’è: abbiamo un po’ di bello e un po’ di brutto, si tratta di dare a vedere di sé solo la parte performante’.
Così la maggior parte di noi. Ma così anche la maggior parte di me. Sento che io resisto alla fede. Un tale una volta volendo approfondire la mia posizione sul cristianesimo mi chiese: “Ma tu fai la comunione?” mostrando la sua repulsione. Ed io come la risolvo? Mi dico: questa resistenza finirà un giorno, se non prima quando sarò io a morire. Bisogna aspettare che avvenga? Non abbiamo in noi la vita e siamo già morti in realtà, è una questione di tempo. E cos’è il tempo? Esiste il tempo?

 

Se penso questo e so che è cosa seria, allora mi è più facile rendermi conto che Cristo è morto per me, è morto della mia morte. Non intendo solo che è morto al mio posto, anche io dovrò morire. Lazzaro morì di nuovo. Egli si è avvicinato al mio morire, ha condiviso le mie paure, l’angoscia, il mio ultimo respiro, è morto con me. La sua morte è la mia. Gesù lo sa e tace. Aspetta che io lasci che Egli sia con me nel mio morire affinché io sia con Lui nel suo. Con quel che ne segue: “Se moriamo con lui, vivremo anche con lui” (2Tm 2, 11). Aspetta fino all’ultimo. Ma quanto sarebbe meglio per noi non aspettare affatto! Già oggi infatti vi sono contraddizioni e prove, occorre la pazienza, capacità di soffrire: è un morire a piccole dosi. Gesù è qui: come il ricordo del morire può essere una grazia, anche le spine quotidiane lo sono. Del resto, il paradiso non è declinabile in terra, salvo averne degli anticipi, le sue beatitudini. Per suo mezzo entrare ed uscire da una dimensione all’altra, dalla morte alla vita, avere i piedi in terra e il cuore già in cielo.
Dicendo con leggerezza, come uno stargate. 

 

Valerio Febei e Rita

 

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