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Risorgeremo per la giustizia di Dio

Briciole dalla mensa - 32° Domenica T.O. (anno C) - 6 novembre 2022

 

LETTURE

2Mac 7,1-2.9-14   Sal 16   2Ts 2,16-3,5   Lc 20,27-38

 

COMMENTO

 

«I sadducei, i quali dicono che non c'è risurrezione». Una fede monca, impoverita: «Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini» (1Cor 15,19). Ma, soprattutto, impoverisce il Signore: Dio non è un placebo per le nostre angosce di fronte alla morte. È la grande Promessa: Dio è relazione d'amore, instancabile ed eterna. Ma come può esserlo senza Adamo con cui passeggiare e dialogare nel Paradiso della vita? Se neghiamo l'eternità all'uomo, per forza la neghiamo anche a Dio.

 

In verità, la fede nella risurrezione dai morti non ha cominciato a farsi strada pensando all'altro mondo, ma - all'opposto - a questo mondo. Ha iniziato Giobbe, che invano ho riflettuto per cercare la giustizia di Dio nella realtà di questa vita. Infatti Giobbe giustamente affermava che non vediamo qui sulla terra la retribuzione di Dio per le opere degli uomini. Capita, infatti, che gli empi prosperino e muoiano tranquilli e felici, talvolta osannati. Invece i giusti sono perseguitati, colpiti da disgrazie (come Giobbe stesso), senza vedere con i loro occhi la giustizia divina. Quindi la storia smentisce che Dio retribuisca in questa vita il bene e il male compiuti dagli uomini, come affermava il pensiero religioso del tempo.
Ma Giobbe ha una fede incrollabile nella giustizia di Dio. Quindi arriva a dedurre che deve esserci un ambito nel quale Dio premia i giusti e condanna gli iniqui: e questo ambito, per forza, deve collocarsi oltre la vita terrena. «Io so che il mio redentore (colui che fa giustizia) è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dietro la mia pelle io starò ritto, e dalla mia carne, vedrò Dio» (Gb 19,25-26).

 

Quindi, quale giustizia divina possono affermare i sadducei, dinanzi a un mondo condizionato dal protagonismo degli uomini, dalla loro sete di potere, di guadagno, di sopraffazione? Se non c'è vita eterna, questo mondo è in balia dell'ingiustizia, e il grido di sofferenza degli innocenti, dei poveri e degli indifesi denuncia l'assurda condizione umana.
Perciò, la fede nella risurrezione dei morti è proprio l'opposto della fuga dal dramma della vita: è l'assunzione piena di esso attraverso l'impegno concreto e quotidiano per la giustizia, sapendo che Dio, nell'eternità, la farà trionfare.

 

Il caso paradossale di sette fratelli che sposano successivamente la stessa donna, invece di esprimere l'assurdo della fede nella risurrezione dei morti - come vorrebbero i sadducei («Alla risurrezione, di chi sarà moglie?») - denuncia l'insensatezza di una visione della vita futura come prosecuzione di questa. Cioè come proiezione e prolungamento della condizione attuale. Essere «uguali agli angeli» significa partecipare alla vita divina con la propria vita umana, e non con una pretesa continuazione dell'esistenza attraverso il prolungamento di essa nei figli, nei nipoti eccetera; per cui il matrimonio era legato prima di tutto alla procreazione.
Solo in questo modo ha senso il «non prendere moglie né marito». Altri testi scritturistici ci rivelano che, nella risurrezione, riprenderemo i nostri rapporti d'amore, che hanno caratterizzato la vita terrena. L'amore non può finire, la morte non può arrestarlo. Ci ameremo pienamente: senza limiti, senza riserve, capaci di bene anche con quelli che sono stati nemici in terra.

 

«Poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio». Come può essere figlia di Dio una povera carne umana, tanto fragile, limitata, segnata dalla morte e continuamente tentata dal peccato?! Ci diciamo «figli di Dio», ci lasciamo condurre da Gesù a pregare Dio come «Papà», affermiamo che nel Battesimo ci è donata, in Gesù Cristo, tutta la vita divina: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1Gv 3,1). Eppure: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti, passano presto e noi voliamo via» (Sal 90,10). Se ci pensiamo figli di Dio, non possiamo che pensarci appartenenti alla sua vita eterna. Tanto che l'aspettare la risurrezione dei morti e quindi la pienezza della vita risulta l'unico modo per considerarci figli di Dio.

 

Gesù fornisce anche una "prova" scritturistica della risurrezione dei morti. Egli cita il passo del roveto ardente, nel libro dell'Esodo, che appartiene al Pentateuco: unico corpo delle Scritture che i sadducei consideravano parola di Dio. Dio si presenta a Mosé come «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe». Se Abramo, Isacco e Giacobbe fossero morti e fosse definitivamente terminata la loro vita, come potrebbe Dio continuare a presentarsi come loro Dio? Per forza, devono essere in qualche modo ancora viventi. Ma poiché i patriarchi non vivono più in questo mondo, vuol dire che sono risorti!
I patriarchi, che hanno vissuto per Dio, ora vivono in Lui e grazie a Lui. Così il discorso sulla risurrezione viene riportato all’oggi e alle motivazioni per cui vivere oggi. Chi ha una ragione per morire (cioè dare la vita), ha anche una ragione per vivere. Il Dio dei patriarchi è il Dio che si è legato loro con l'alleanza, alla quale ha loro solennemente promesso di rimanere fedele: Dio non abbandonerà mai quelli che ama.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Di chi sarà moglie? La legge del levirato aveva la funzione di tutelare la famiglia. La norma, apparentemente una garanzia per la donna in caso di vedovanza, implicava l’idea che comunque dovesse appartenere a qualcuno: padre, marito, cognato. Di quale dei fratelli sarà moglie? La negazione della vita oltre la morte comporta che questo tempo, con tutto quel che conta, abbia un valore assoluto: bisogna che la vedova vada sposa di un cognato a salvaguardia della famiglia, delle eredità, del nome, del clan… La visione dei sadducei assolutizza i vincoli di questa realtà.
I sadducei sono passati, ma l’idea che la realtà sia solo questa comunque pervade la nostra mentalità secolarizzata. Per quanto la coscienza del morire turba segretamente l’anima, siccome non c’è risposta, si preferisce non pensarci. Così vanno le cose. Mancando la prospettiva della risurrezione si finisce per assolutizzare questo mondo sia che si tratti di sadducei sia che si tratti della massa dei viventi. Il paradiso, se c’è, deve consistere nel beneficio connesso alle cose, nel gusto e nella qualità del vivere. Ahinoi!

Il matrimonio, anche se oggi non è condizionato da una ragione esterna (famiglia di origine, trasmissione del casato, procreazione, conservazione del patrimonio, eredità…) come al tempo dei sadducei, nell’immaginazione dei contraenti è il luogo dello stare insieme meglio che si può, rimedio alla solitudine... e magari fosse! Insomma il pensiero ‘debole’ offre deboli motivazioni al rapporto di coppia.
Sul bene del matrimonio già Seneca scriveva negli anni di Cristo una pagina splendida.

Ma c’è di più. Il matrimonio cristiano (che è la forma di rapporto più intrinsecamente promettente) prende ben altro significato dalle Lettere apostoliche (per es. Paolo agli Efesini 5): in esso i due sono chiamati ad amarsi cioè ad edificare l’altro nel bene perché sia piacente a Dio o, se non sappiamo che significa, che maturi nella generosità, nell’amabilità, nella compassione verso tutti, dando per primi prova di tutto questo. Il matrimonio è per la santificazione degli sposi. Il termine sembra ed è impegnativo, ma che altro? Poi si arriva dove si arriva, ovvio. Nel matrimonio ci giochiamo non solo la qualità del rapporto in atto (come in ogni relazione di coppia) ma la sequela e il destino, cioè il passaggio alla forma della vita futura in cui gli sposi ritenuti degni saranno come angeli e Dio sarà tutto in tutti.

Sappiamo che un giorno ci lasceremo, ma già ora c’è in noi l’idea che nessuno è ‘il termine’ dell’altro, anche nella coppia. Anche il matrimonio non ha in sé il fondamento e il termine, ma ha un fine. Ciò comporta la libertà da stereotipi o schemi costrittivi. Sì, siamo servitori ma in vista di altro. In sostanza Dio ci abita e noi amandoci con questa libertà vediamo la coscienza estendersi, allargarsi fino a presentire un’aria più rarefatta, più trasparente, un cielo più vicino…
Camminando s’apre cammino, diceva Arturo Paoli. Salendo, il panorama si slarga. A quel punto la prospettiva della risurrezione si fa plausibile, ragionevole.

In conclusione, ci vuole una ragione forte che vada a fondo nelle cose per aprirci alla fede. Tanto che si può con cognizione di causa ritenere che la poca fede che c’è in giro sia il riflesso di un diffuso disimpegno della ragione.
Viene in mente Dante, la Divina Commedia.

 

Valerio Febei e Rita

 

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