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Quale re?

Briciole dalla mensa - Domenica delle Palme (anno B) - 24 marzo 2024

 

LETTURE

Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mc 14,1-15,47

 

COMMENTO

 

La domenica delle Palme ci offre un'abbondanza e una ricchezza della parola di Dio che saranno superate soltanto nella liturgia della Parola nella Veglia pasquale: così la liturgia fa sì che la Pasqua sia, innanzitutto, parola di Dio che si compie.
La celebrazione inizia con la proclamazione del Vangelo dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme. La liturgia invita l'assemblea a prendere la parte della folla e così «accompagnare il nostro Salvatore nel suo ingresso nella città santa», «per giungere con lui alla Gerusalemme del cielo»; a «rimanere uniti a lui, per portare frutti di opere buone»; a «imitare le folle che lo acclamavano Re e Signore». Il modo con il quale ascoltare e accogliere la Parola è personificare la gente che partecipa all'evento dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme: riconoscerlo Re Messia e accompagnarlo negli eventi pasquali che lo rivelano come inviato di Dio che si lascia togliere dignità e vita dai suoi oppressori, ma per donarci così la sua vita, che ci introduce nella salvezza.

 

Accompagnando, dunque, Gesù dal monte degli Ulivi verso Gerusalemme, notiamo, innanzitutto, come Egli si mostri abitato da una grande autorità. Infatti, poco prima, Marco ci aveva riferito l'ultimo annuncio della passione: Gesù conosce il senso del cammino che sta per compiersi a Gerusalemme, sa che lo sta portando al dono radicale di sé, ma lo accoglie con coscienza e libertà (cfr. Mc 10,32-34).
Gesù prevede e decide gli avvenimenti, ed è determinato a compierli. Non è l'eroe senza timore, ma il Figlio che conosce la volontà del Padre, che è salvezza, e vi obbedisce obbedendo alla parola della Scrittura. Con questa sua obbedienza, la volontà di Dio diventa sua volontà.

 

Gesù decide di iniziare l'ingresso con un gesto profetico: manda due discepoli a prendere un asino e a condurlo a Lui perché gli serva come cavalcatura. Non è la requisizione dei beni della gente che i re si potevano permettere di fare (cfr. 1Sam 8,16). Infatti Gesù si preoccupa di assicurare, dai due discepoli, che restituirà subito la cavalcatura.
Dunque il racconto mette in evidenza la povertà di Gesù, che ne fa un Signore paradossale: un Signore che deve chiedere in prestito un asino, ma promette di restituirlo subito. Ma Gesù prepara così gli elementi perché, alla luce della Scrittura, risulti chiara la dimensione messianica del suo cammino verso Gerusalemme: l'asino è la cavalcatura del Messia povero e mite di Zc 9,9.

 

Poi, il corteo che accompagna l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, la città del re d'Israele, gli rende onori regali, con i mantelli stesi lungo la strada e le parole di ovazione (cfr. 2Re 9,13). Ma proprio la scelta di un asino preso in prestito come cavalcatura rivela quale concezione del Messia Gesù fosse venuto a incarnare: ben diversa dalle attese della folla.
Infatti la gente acclama con le parole del Sal 118, che proclama la regalità di un Messia trionfante sui nemici. Mentre Gesù stesso citerà, dello stesso Salmo, altri versetti, per rivelare il rifiuto del figlio da parte dei vignaioli, cioè il rifiuto dell'Inviato di Dio da parte dei capi d'Israele, per annunciare l'evento pasquale: «La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d'angolo» (Sal 118,22; Mc 12,10).

 

Da parte della gente che lo proclama c'è un'equivoca interpretazione della figura di Gesù. Infatti l'acclamazione: «Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide» proietta in Gesù l'attesa solo di un discendente della dinastia di Davide e aggancia Gesù alle attese politico-nazionalistiche che sono collegate a questa tradizionale attesa del Messia.
Perciò viene così tolta a Gesù la sua novità disarmante e dirompente, per ridurlo alle loro attese materiali e tradizionali («il regno del nostro padre Davide»). Invece Gesù annuncia e vive il «regno di Dio» non «di Davide». E sarà una regalità che apparirà nell'evento pasquale.

 

Ancora una parola sulla proclamazione regale della folla che accompagna Gesù. L'invocazione «Osanna» significa: «Signore, salva!». Ma è diventata un'esclamazione che non invocava più il Signore, ma si limitava a celebrarlo. Cioè non chiedeva qualcosa, ma manifestava una certezza; non supplicava, e invece aveva tutta la presunzione di avere Dio dalla propria parte.
Anche oggi si può correre il rischio di affermare la fede di essere in attesa del Signore, ma, in verità, si riduce la sua figura alle nostre attese. Sin dall'ingresso nella città santa, viene rivelato che il cammino di Gesù non solo può non essere capito, ma anche piegato ad un'interpretazione interessata, che non scomoda, come deve scomodare un re povero e umile, che non mette in crisi, come fa il volto sfigurato e il corpo martoriato del Figlio di Dio: un Dio ricercato solo per dare conferma di sé.
Come Chiesa ci è chiesto, all'inizio della settimana santa, di imparare dal cammino di Gesù, per mettersi a camminare tra gli uomini come Lui ha camminato.

 

Alberto Vianello

 

 

Chissà se ci rendiamo conto di questa storia come della ‘nostra’ storia, la mia, la tua. Se e quanto ci entriamo dentro. Dubito della comprensione che ne ho, di quanto mi riguardi. Insomma è facile rimanerne estranei, fuori, che si resti a guardare magari con orrore, ma certo non partecipi come i capi, i soldati. Mi turba l’idea di esserne coinvolto, di giocarci un ruolo, di non poterne prescindere. È una storia brutta. Conclusione: questa storia è mitica, desueta, buona per chi è afflitto da sensi di colpa, gente che prega, i cristiani.

 

C’è il mondo nel racconto della Passione, ma basta non pensarci. Basta considerarlo primo ‘rito della settimana di Pasqua’. Rito. Ma non è un rito. Non è cambiato nulla, è la storia di oggi dove la gente, gli innocenti vengono uccisi, fatti a pezzi con non meno orrore. Senza morfina. Ed infatti Gesù non volle bere la mistura lenitiva offertagli dalla ‘pietà’ romana.
I personaggi appena un po’ onesti, o quelli anche più amici che lo avevano praticato, tutti spariti. Dei suoi solo le donne e un ragazzo che, per età e carattere, le avvicinava. Oh, bisogna dirlo sia pur sottovoce: le donne sono più forti, è un mistero bello il loro essendo più vicine al nascere e al morire. Per natura sono fatte di dolore e di bellezza. Hanno una marcia in più, intuito del cuore, altroché sesso debole, o vecchiette. Scemenze! Stanno lì, sopportano lo strazio piangendo. In certe immagini della tradizione le vedi assistere un moribondo, comporne il corpo ancora tiepido mentre gli uomini stanno fuori a pensare il nulla! Sacerdotesse, ministre del sacro. Ché non c’è cosa più sacra della morte violenta e procurata dell’innocente. E sono le prime ad andare due giorni dopo al sepolcro per completare le operazioni di sepoltura.

 

E gli uomini? Nella scena della passione sono gli assassini, i guardoni. Ad estendere: gli operatori di guerra, quelli che ‘fanno’ la storia, la politica, i governi, gli eserciti, i generali, i notabili, i capi. I sacerdoti. I fuggiaschi: quelli che sono incapaci di reggere la scena o ne sono coautori. Gli amici dormono mentre il Maestro suda sangue (la ematoidrosi, la costrizione dei capillari) o spariscono fischiettando tra la folla, nel buio. Io non c’entro! Qualcuno invece segue spaurito lo svolgimento del dramma, da lontano, sperando di non essere notato. Ma è stato visto spesso vicino al condannato, la luce del fuoco lo tradisce come il dialetto del nord. Allora spergiura e si divincola: io non c’entro. Che sberla quel gallo che canta per lui! C’è chi fa peggio e consegna per denaro l’innocente a chi voleva toglierlo di mezzo che perciò, avutolo nelle mani, imbastisce la farsa omicida in una notte e un giorno. Quando vuole una cosa il potere non dorme. Ma perché lo avrà fatto? Un fiume di inchiostro s’è speso per cercare di capire, di interpretare l’euforia del tradimento con quel che segue.
Ognuno ha la sua parte in questa recita. Anche i convitati di pietra, quelli che stanno in un angolo, non dicono e non fanno nulla, non partecipano secondo loro, ma sanno e non si oppongono. Sono i più. Nessuno ha le mani pulite di fronte ai poveri, diceva un prete ai tempi dei giudici moralisti. Nessuno ha le mani pulite di fronte alle guerre, ai migranti affogati in mare e via andando.

È cosa dura riconoscerlo ed è la prima causa dell’indifferenza verso Cristo, della sua impopolarità. Lo accusano ma Lui non risponde. Che senso ha rispondere? Parlerà la croce che gli abbiamo preparato (perché gliela prepariamo noi con le piccole – o meno piccole - disumanità) col rimprovero, dice Isaia, profeta psicologo. I nostri errori ci rimproverano e il rimprovero è fastidioso. Siamo pronti d’istinto ad azzannare. Quindi ancor più a rimuovere, a guardare da un’altra parte.
Qui credere vuol dire semplicemente non voltarsi, non fuggire, ammettere di che stiamo vivendo e convertirsi al giusto che paga e riscatta. Si apre allora un oceano insospettato di pace. 

 

Valerio Febei e Rita

 

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