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Parole di carne

Briciole dalla mensa - 8° Domenica T.O. (anno C) - 27 febbraio 2022

 

LETTURE

Sir 27,5-8   Sal 91   1Cor 15,54-58   Lc 6,39-45

 

COMMENTO

 

Prosegue il discorso di Gesù che ha al centro l'invito ad amare i nemici (Vangelo di domenica scorsa), vero programma della vita cristiana. Perciò anche le parole che ascoltiamo questa domenica fanno riferimento ancora al comportamento di chi sta imparando dal suo Maestro a «porgere l'altra guancia».
«Può forse un cieco guidare un altro cieco?». Uno è cieco perché non è capace di guardare innanzitutto a se stesso, cioè a riconoscere i propri difetti, le proprie mancanze e i propri errori. Ha un amore sbagliato per se stesso: sempre scusa, sempre assolve il proprio io, e per questo è costretto ad incolpare gli altri. Altro che «porgere l'altra guancia»! Si sente minacciato da qualsiasi capacità e talento che non siano suoi, perciò li svaluta e li annulla. Chi esercita così il ministero di guida finisce - lui e chi è guidato da lui - dentro «un fosso»: una depressione azzerante ogni cosa che valga.
«Un discepolo non è più del maestro»: ogni guida deve essere sempre un discepolo, che esercita l'umiltà e la docilità, imparando continuamente ad essere piccolo, per stare con i piccoli come uno di loro. Solo così è una vera guida, perché ama innanzitutto gli altri, e non se stesso. Del resto, Gesù ha autorizzato i suoi discepoli a chiamarlo «Maestro e Signore» solo dopo aver lavato loro i piedi, il gesto dell’ultimo (cfr. Gv 13,1-18).

 

Il detto della pagliuzza e della trave nell'occhio ribadisce la necessità di una critica verso l'altro che sia credibile per il fatto che viene dopo una doverosa autocritica. Per poter aiutare veramente l'altro a crescere e migliorarsi (togliere la pagliuzza dal suo occhio) occorre prima fare verità su se stessi riconoscendo il proprio limite (togliere la trave), che è sempre più grande e sproporzionato, rispetto al difetto dell'altro, perché è nel mio occhio, lo vedo da vicinissimo, è molto grande, anche se può essere oggettivamente piccolo, perché ci voglio convivere, invece di allontanarlo. In fin dei conti, è un servizio fatto a me cogliere un difetto o una mancanza dell'altro perché, per correggerlo, sono obbligato a riconoscere e correggere quell'errore che c'è in me.
Detto in altre parole, è necessario creare un clima di fiducia nella relazione con l'altra persona, così che essa possa dirsi anche negli aspetti meno positivi di se stessa. Ma, per farlo, la persona deve sentirsi accolta nella sua umanità senza giudizi e condanne. E il modo migliore per accoglierla così è la presa di coscienza della povertà di chi «corregge»: siamo tutti e due poveri, e insieme possiamo fare un cammino positivo, vivendo l'amore gratuito. Insomma, è solo facendo verità su se stessi, non nascondendo le proprie zone d'ombra e avendo l'umiltà di correggersi e di cambiare, che si può rendere autentico il proprio rapporto con gli altri. Altrimenti, la pretesa di vedere il difetto dell'altro e di aiutarlo, diventa un paravento per non riconoscere il proprio.

 

Come i frutti rivelano la qualità dell'albero, così le parole rivelano la qualità del cuore dell'uomo. Il cuore, nella Bibbia, è la sede della volontà e l'intelligenza, della ragione e della decisione, poi di emozioni e sentimenti. Un cuore è buono (un «cuore di carne») se si alimenta delle cose buone, come gli "umanissimi" doni dello Spirito: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). Oggi dobbiamo preoccuparci di alimentare questo «cuore di carne». Ci sono delle persone che, anche dinanzi alla morte, testimoniano un cuore pieno di umanità, di senso vero della vita, di amore, di gioia, di pace. Esse sono un'infinita benedizione del Signore perché noi, con il loro esempio, molto più che con tante parole, diventiamo in grado di stare dentro le cose di ogni giorno, ma vivendo l'eternità della bellezza della vita.
All'opposto, il cuore diventa cattivo se si nutre delle «cose della carne» (Gal 5,19), cioè di un'individualità chiusa e autoreferenziale, e, nei casi patologici, anche malata e guasta.

 

Gesù dice che è il nostro parlare che crea il collegamento tra interno ed esterno: «La sua bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda». Quando parliamo, lo facciamo avendo come riferimento se stessi e parlando, molto spesso, di se stessi. La parola ci mette a nudo perché viene dal cuore, dice la nostra umanità profonda. In un mondo che affoga nelle parole, è necessario curare il tipo di parole buone. Esse possono diventare il modo in cui ci mettiamo il cuore - nelle situazioni e nelle relazioni - per curare. Davvero le parole che diciamo hanno la forza di curare o, all'opposto, di ferire. In esse prevalgono spesso i nostri sentimenti più immediati, come la rabbia, la stanchezza, l'esasperazione, l'esaltazione.
Gesù, invece, ci invita ad attingere in profondità, al cuore. Le parole rivelano l'uomo: forse per questo c'è chi ha timore a parlare, perché lo vede come un mettersi a nudo che lo blocca. Ma, in ogni uomo, Dio ha messo, nelle profondità del suo cuore, un valore positivo, per il quale siamo fatti a immagine e somiglianza della divinità. Questa è la convinzione di fede più radicale: non l'esistenza di Dio, ma quella del cuore buono, «di carne», dell'uomo. Gesù ha speso tutta la sua vita, consumandosi nella ricerca di quel cuore nei poveri disperati, nei peccatori, in tutti gli uomini "sbagliati", e anche nei rigidi religiosi. E continua la sua ricerca perché noi, uomini del nostro tempo, sappiamo dire parole di carne, che vengono da un «cuore di carne».

 

Alberto Vianello

 

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