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La maturità della fede

Briciole dalla mensa - 33° Domenica T.O. (anno A) - 19 novembre 2023

 

LETTURE

Pr 31,10-13.19-20.30-31   Sal 127   1Ts 5,1-6   Mt 25,14-30

 

COMMENTO

Talenti: non è uno show televisivo, là dove si sollecita la rivalità, l'antagonismo e la contrapposizione, per farne un misero spettacolo. È significativo che la parola «talento», a partire proprio dalla parabola che Gesù proclama, è diventata di uso comune, per indicare le capacità positive peculiari di una persona. Avere talento è arte, invenzione, originalità, superamento di semplici esiti delle applicazioni ad una realtà.
La parabola è, innanzitutto, la storia di un riscatto sociale. Vi troviamo un padrone, tre suoi servi e i talenti, ovvero il suo capitale che egli affida loro, partendo per un viaggio. Quel capitale, pur raddoppiato nei primi due servi, è quel «poco» - nel quale sono stati fedeli nel farlo fruttare - rispetto al «molto» sul quale il padrone darà loro il potere. Non più servi, non più proprietà di qualcuno o qualcosa. L'idolo è colui che ti compra; Dio è colui che ti libera e ti dà una dignità pari alla sua. La vita non è la pretesa di essere come Dio (come aveva insinuato il serpente ad Adamo), ma di essere un uomo, che Dio rende pari a se stesso.

 

Ma questa via di riscatto e di dignità si imbocca nella fedeltà all'oggi della nostra vita e alle sue cose. Una fedeltà che è richiesta dal fatto che il padrone se ne va, e quello che avrebbe fatto lui lo devono fare i servi: gestire il suo capitale. Se al padrone diamo la figura di Dio, allora possiamo parlare del nostro tempo come il tempo della sua assenza. È una sfida continua per il credente, provocato continuamente da un mondo che coniuga l'assenza divina in inesistenza. Ma la parabola invita a guardare alle proprie mani: la partenza del padrone le ha caricate del suo capitale. Dio è presente nel mondo con i talenti che ci ha consegnato. Sapere che è assente, e tornerà a vedere i frutti del suo capitale, ci responsabilizza e ci impegna.
La fede puerile e attendere tutto dall'alto. La fede matura è lasciarsi muovere tra le situazioni della vita domandandosi qual è il contributo positivo che vi possiamo dare, a partire dai doni ricevuti. Così la preghiera puerile è voler cambiare le disposizioni di Dio, e quella matura è lasciarsi cambiare da essa, con la grazia divina.

 

I servi non si sono procurati i talenti, né li hanno guadagnati: è il padrone che ha deciso di «consegnarli» a loro. Significa che le capacità e l'uso che ne facciamo non sono merito nostro: sono segnali di come il Signore crede in noi. Ma, una volta accolti, vanno praticati come fossero nostri. Il servo che è andato a sotterrare il talento, non ha mai riconosciuto la gratuità del suo padrone e non ha fatto suo il talento: «Ecco ciò che è tuo».
Dunque l'assenza di Dio la possiamo leggere come un atto di fiducia. Dio così rischia, mettendo il mondo nelle mani dell'uomo, perché si fida di lui, pur sapendolo fragile e tentato dal male. Ma Dio ci preferisce figli che sbagliano, piuttosto che servi sui quali incombe un padrone sempre presente. Meglio un mondo fragile e povero, ma fatto di uomini liberi, piuttosto di un mondo perfetto dove il bene è imposto e tutto viene fatto da Dio solo.
Il nostro è un tempo di assenza visibile del Signore. Ritornerà, ma ha affidato a noi la terra, ha affidato l'umanità, ha affidato la testimonianza. Credere nel Signore significa credere nei suoi doni: sono un capitale, che va impiegato, rischiato, fatto fruttare. Mentre rischiamo, invece, di essere una religione di belle statuine: tutto custodito uguale, con venerazione, senza movimento, senza aperture, senza compromissione. Mentre i talenti vanno spesi, vanno compromessi, vanno trafficati. Avere dei talenti vuol dire farli fruttare, mettendoli in gioco, spendendoli per gli altri, rischiando la perdita. Alla fine non varrà il fatto che si abbia custodito immutabile e ferma la dottrina, ma se, per passione dell'altro, si avrà speso il capitale che il Signore ci ha messo nelle mani per dire e mostrare ad uno di fuori che il Signore lo ama.

 

Ma dobbiamo prendere in esame anche la figura del servo che ha ricevuto un talento, e non l'ha trafficato, ma lo ha nascosto sotto terra, e, uguale, l'ha riportato al suo padrone. Gesù lo chiama «pigro», il testo letterale è più forte: «fannullone». Viene denunciato un atteggiamento irresponsabile perché ripiegato nel rimanere nel sicuro, nel evitare di mettersi in gioco, nella preoccupazione di non vedersi giudicato dagli altri. Tutto questo nei confronti della vita, della comunità, della società. Non appartiene a questo servo il minimo interesse per un atteggiamento di cura, di custodia del bene comune. Tutto questo lo porta a non corrispondere alla volontà del suo signore di veder crescere il suo capitale.
Ma egli stesso ammette che la causa è una visione negativa che egli ha del suo padrone: «Signore, so che se un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso». Il padrone denuncerà l'incoerenza di tale visione: se il servo pensava davvero questo di lui, avrebbe dovuto impegnarsi ad accrescere il capitale. In ogni modo, viene denunciata una visione terroristica di Dio, una sua immagine severa e minacciosa, che porta a una religione di prestazioni distaccate e deresponsabilizzate: «Ecco ciò che è tuo». È l'opposto dell'immagine vera di Dio, un Dio che ha fiducia in te, che suscita energie, provoca fantasia, immaginazione, creatività. Non è l'immagine del controllo, dell'impegno non coinvolto, della mancanza di passione per il mondo, che sta dietro a parecchia religione attuale.

 

Alberto Vianello

 

 

 

 

A ben vedere cinque talenti non son poca roba, oggi varrebbero vari milioncini. In ogni modo la vita vale molto di più e ‘vocata’ a crescere ancora. Il concetto è sempre lo stesso: bisogna impiegarli i talenti, pochi o tanti che siano, per la crescita del regno di Dio tra gli uomini.
A volte capita che ci si disponga a cercarli i talenti, quali siano, se siano rispondenti alle varie situazioni, col sospetto della loro pochezza ed inefficacia, e così passa il tempo nell’incertezza e nell’inazione. Il tale che ha ricevuto un solo talento teme di aver avuto poco, si giudica per quel poco e giudica severo e pretenzioso il titolare che ne aspetta di più. Rispetto agli altri ha avuto poco ed ha paura di non essere in grado di compiacere il padrone esigente. Un vissuto dai contorni moderni, ci sta dentro anche l’ansia da prestazione.

 

Capita allora di percepirsi talmente poveri da non aver nulla da dare, quindi fuori gioco. Beh, così in questa rinuncia si pensa di trovare un po’ di pace. Il rischio sottostante è non riconoscere il dono della vita ricevuta, cade il senso della gratitudine. Nelle comunità terapeutiche, almeno quelle di ispirazione cristiana, si insegna a dire grazie a Dio della vita e, a seguire, grazie all’altro perché c’è. Riparte la responsabilità riconoscendo la condizione ovvia: la vita uno non se l’è data, non dipende da lui e se questa percezione genera sconcerto iniziale può innescare l’elaborazione della gratitudine.
Tutto è dono. Questo giorno è un dono, la tua presenza è un dono. Il povero che credeva di non valer nulla e di non poter nulla dare si collocava in una postura egoistica, l’ego è una tomba. È la situazione di chi ha avuto un solo talento, poco o niente secondo il suo punto di vista. Se nulla ho nulla do, quel poco lo tengo per la mia sopravvivenza.

 

Le generazioni che continuano a venir su nelle nostre società sono malate di autosufficienza tanto quanto non sanno o non riconoscono che la loro vita è come l’erba del campo, “la mattina germoglia, fiorisce e la sera è falciata e dissecca”. Il Sal 89 continua: “Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore”. C’è qualcosa di più semplice e vero? Nessuno è talmente povero da non poter regalare un sorriso.
Per lo più si pensa che i talenti, il dono dell’intelligenza, dello studio, le abilità di gestire sistemi, i titoli professionali siano proprietà personali da impiegare a vantaggio di chi li possiede. Vale a dire che i talenti, due o cinque, ricevuti in consegna dal titolare perché siano messi a frutto per l’azienda, vengono usurpati, come fanno i vignaioli omicidi di Matteo (21,33-44): sono proprietà privata. L’assurdo.
Scriveva Sandra Sabatini, morta a 24 anni, investita da un’auto, beata, (prossima alla laurea in medicina che progettava di spendere in Africa, volontaria nelle comunità terapeutiche, che usciva ben vestita - le piacevano i maglioni - e tornava con addosso panni consulti avendo scambiato quelli con chi glieli invidiava), diceva a sé stessa: “Ricordati Sandra, niente è tuo, ogni cosa è un dono”. I titoli professionali, le competenze acquisite non sono titoli di possesso ma di servizio. ‘Ah, ma io li ho conquistati col mio sudore’. Te ne sia reso merito, ma chi può realmente dire ‘sono miei’ o ‘è mio il frutto’? Somiglia la sua posizione a quella del ricco possidente la cui campagna aveva dato una super produzione e che diceva alla propria ‘anima’ evidentemente sensitiva: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripostati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto…”. Si sa come va a finire il racconto di Luca (12,19-21). A volte viene da chiedersi: ma occorre il Vangelo per sapere queste cose? Già, il Vangelo è un continuo richiamo alla realtà semplice e vera.

 

Valerio Febei e Rita

 

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