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La giustizia del perdono illimitato

Briciole dalla mensa - 24° Domenica T.O. (anno A) - 17 settembre 2023

 

LETTURE

Sir 27,33-28,9   Sal 102   Rm 14,7-9   Mt 18,21-35

 

COMMENTO

Gesù racconta una parabola per mostrare quanto sia logico, non assurdo, il perdono illimitato, al proprio «fratello». La domanda di Pietro su quante volte perdonare stavolta riguarda proprio la parte di chi interroga: «contro di me», è la parte lesa. Pietro mostra una grande apertura (è disponibile sette volte) rispetto alla concezione del suo tempo, che pensava ancora alla vendetta come forma di ristabilimento della giustizia; ma anche oggi, per esempio nella politica - che inasprisce le pene invece di cercare di recuperare la persona - prevale la rivalsa: l'altro non è «fratello».
Ma Gesù risponde a Pietro con una logica "quantitativa" che non è solo numerica, ma è totalmente sproporzionata, a rovesciamento di quella vendicativa di Lamech, che ha regnato nella storia: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette (Gen 4,24). È Gesù che ha invertito il senso della storia: al peccato iniziato con l'uccisione del fratello e teorizzato con l'affermazione della vendetta infinita come forma di giustizia, contrappone un perdono senza condizioni e senza limiti. Significa che il mondo attuale, che continua nella logica della rivalsa e della violenza, non fa altro che recalcitrare contro il pungolo: la fede è affidarsi alla forza e alla vittoria del perdono del fratello. Ma perché e come viverlo?

 

Gesù racconta la parabola di un servitore che è debitore verso il suo padrone e creditore verso un suo compagno, un «fratello». La forza del racconto sta nella sproporzione addirittura paradossale fra le due somme dovute. Infatti i «diecimila talenti» che il servo deve al padrone è una cifra astronomica: equivale alla paga di cento milioni di giornate di lavoro di un operaio. Si può anche considerare che il «talento» era la maggior unità monetaria di tutta l'Asia minore e «diecimila» era la cifra più grande nel far di conto. Sono dunque due grandezze estreme: quel servo doveva al suo padrone un debito che più grande di così non si poteva (A. Mello). Tale cifra estrema assume tutto il suo valore nel contrasto con il secondo debito, quello di cui l'uomo è creditore: può essere giusto richiedere indietro un prestito fatto, ma diventa assolutamente "ingiusto" davanti un tale debito che ci è stato condonato!
Dunque, la domanda di chi obietta: «Come faccio a perdonare al mio fratello che mi ha profondamente ferito, negato, segnato per tutta la vita?», si risponde che quel debito del fratello è nulla in confronto all'immensità che il Signore ci condona. Tutto è suo dono gratuito e immeritato: Egli non vuole restituzioni, ma che siamo misericordiosi con gli altri, perché riconosciamo che la vita, la famiglia, le relazioni, il creato, tutto ci viene da Lui. La gratitudine verso Dio ci apre il cuore alla misericordia. Si possono perdonare anche i nemici quando ogni giorno riconosciamo le cose belle di cui il Signore ci fa credito: la misericordia non è solo cosa per i santi.

 

Nella prima parte della parabola c'è ancora da sottolineare la «compassione» del padrone verso il servo, disperato perché non poteva restituire nemmeno una briciola dell'immenso debito. Anche venderlo con tutta la famiglia non poteva ripianare tale "buco". Il padrone allora è mosso dalle viscere materne di misericordia (letteralmente) vedendo la situazione disperata dell'uomo, il quale, poi, lo supplicava. Il padrone non guarda al suo capitale, ma alla miseria del servo, per questo non lo condanna, anzi, gli condona tutto.

 

Ma, «appena uscito», il servo si rivale su un suo piccolo debitore. Non sono passati giorni o mesi, neppure un’ora, è talmente ancora immerso in una gioia piena perché insperata, restituito al futuro della famiglia, dal condono del padrone, eppure esige inesorabilmente la restituzione dei suoi quattro soldi.
Era giusto, perché erano suoi, non va contro il diritto e la giustizia. Eppure così è spietato proprio lui che è stato, un attimo prima, oggetto di un'infinita misericordia. I propri diritti non bastano da soli a fare un uomo vero, nell'umanità, e un mondo nuovo. La giustizia non sta nell'esigere il proprio senza ledere la proprietà dell'altro: sta nell'imparare l'umanità, nel riconoscere la fatica e la difficoltà dell'altro, perché anche noi siamo stati riconosciuti così dal Signore, e avevamo un debito ben più grande.
Dunque la misericordia e il perdono non sono l'esito di un cuore eroicamente buono, ma atto di una giustizia altra: non c'è limite al perdono perché siamo infinitamente perdonati.

 

Perciò il padrone, alla fine, condanna quel servo spietato. «Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». Le settanta volte sette diventano il «perdonare di cuore»: che ci risulta difficilissimo, come il numero delle volte da perdonare. Comporta un atto di fede nell'uomo, e non d'intelligenza. Comporta un atto di speranza nell'uomo, non di spontaneità. Fede è dare fiducia all'altro, dargli una nuova possibilità, guardando non al passato, ma al futuro. Così fa Dio con noi: ci perdona non come una cancellazione del passato di colpe, ma come una nuova possibilità per il futuro, per sospingerci oltre.
In conclusione, i cristiani dimostrano di credere nel perdono del Signore non tanto attraverso i loro atti di contrizione, quanto piuttosto nella disponibilità a perdonare «di cuore», «settanta volte sette» al proprio fratello.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Appena fatto papa, Pietro si parò davanti a Gesù che annunciava la passione. “Questo non ti accadrà mai!”. E ricevette una lezione che ancora se la ricorda. “Va' via, satanaTu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dioma secondo gli uomini!” (Mt 16, 21-23). Quale era il pensiero di Dio che prevedeva la passione e la morte di Gesù? Abbiamo detto: l’inclusione della sofferenza e della morte nella redenzione, che sarebbero rimaste fuori stando a Pietro. C’è dell’altro, ovviamente: la remissione dei peccati “per voi e per tutti”, col suo sangue versato in ogni Eucarestia. Scena cruenta, eppure…

 

“La morte si sconta vivendo”, dice un verso di Ungaretti, 1916. La morte o “il male di vivere”, avrebbe scritto Montale in senso più esistenzialista. Paolo scriveva ai Romani (6,23): “Il salario del peccato è la morte”. La guerra, il tedio mortale, il sentimento persistente della colpa, il rimpianto, l’odio per sé stessi, la paura, la fuga nel passato… sono espressioni di morte, alla lunga esiti del peccato, secondo Paolo. Anche del peccato altrui, del male che ci viene fatto senza motivo e produce astio, turbamento, coazione a ripetere, buio nell’esistenza... La vittima si traveste in carnefice, l’umiliato in colpevole e neppure sa perché. Come scrollarsi di dosso questo destino?
La religione cristiana non è un’opzione come tante. È la soluzione come ciascuno ha modo di verificare liberamente.

 

A volte il ‘male di vivere’ scende in noi con una tale gravezza di spirito, accanto ad una visione chiara della irrimediabile vanità di ogni cosa, da lasciare la mente annichilita e lucida. Non c’è psicofilosofia che tenga. Ma ai più inquieti possono aprirsi orizzonti nuovi. Un prete augurava ai suoi: “Che vi venga un mal di pancia!”, così da piantarla con l’orgoglio. Smettetela di piangersi addosso, ché vi vengono i reumatismi”. Cadono i pregiudizi e ci si concede la facoltà d confrontarsi con la Parola e guardarci dentro. Appare allora il rimedio della compassione e del perdono.
Fra di noi, al meglio, possiamo disporre di un amico, di un’amica che ci avvicini nei momenti tristi e per ciò stesso è di sostegno quando le cose buttano male, ci sono contrasti in famiglia, sul lavoro, l’annuncio di una malattia… Una dolce esperienza di consolazione (‘stare con chi è solo’) preserva ‘l’umano’ dall’abbrutimento.
Gesù è questo e molto altro. Ascolta i mali che gravano sulla nostra coscienza, gli errori subiti e quelli fatti, il racconto del male che ne è venuto e, pur non passandoci su, si sostituisce a noi nella colpa, negli effetti, nel ‘salario’. Pago io.

 

“Ma tu vieni e seguimi”. Per fare esperienza che non cammini una via di fantasia, occorre la pratica del perdono, dato e chiesto. Diecimila talenti contro cento denari, miliardi di euro contro cento. Bando alle supponenze: siamo persone vere solo se viviamo di perdono. Occorre farne esperienza. Non la fa quel tale, condonato dei diecimila talenti, che caccia in galera chi gli deve spiccioli al confronto. È la ‘fatica’ di perdonare che rende effettivo il perdono ricevuto. Gesù è vero e non potrebbe parlare come parla se non facesse la ‘fatica, ‘quella’ fatica, di perdonarci. La stessa difficoltà di mettere in pratica il Vangelo sta a dimostrare che è vero e credibile. Il nostro gesto di perdonare fa scendere dentro di noi il balsamo dolcissimo della consolazione e della giustizia, perché rimette le cose a posto.

 

Renzo, scampato alla peste, torna a Milano in cerca di Lucia. Nel lazzaretto incontra fra Cristoforo che si occupa dei malati. E parlando dei suoi guai a partire da don Rodrigo, gli monta la rabbia e promette di ucciderlo se è scampato alla peste. Fra Cristoforo, a quelle parole, ripreso il vigore di un tempo, lo strattona e dice: -“Guarda, sciagurato!” E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il braccio di Renzo, girava l’altra dinanzi a sé, accennando quanto più poteva della dolorosa scena all’intorno. “Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu sai tu quale sia la giustizia! Va, sciagurato, vattene!”-. Una lavata di testa con lozione antiforfora. Renzo è mosso al pentimento e al perdono.  Si apre alla consolazione.
Ma è troppo lungo da riportare, troppo bello da riassumere. Capitolo XXXV de “I promessi sposi”.

 

Valerio Febei e Rita

 

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