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La conoscenza dell'oggi salva il futuro

Briciole dalla mensa - 1° Domenica di Avvento (anno A) - 27 novembre 2022

 

LETTURE

Is 2,1-5   Sal 121   Rm 13,11-14   Mt 24,37-44

 

COMMENTO

 

L'Avvento inizia guardando alla «venuta del Figlio dell'uomo». Matteo è l'unico degli evangelisti che ne parla. È il ritorno del Messia che costituisce la fine: essa non è quindi la rovina del mondo, ma l'evento salvifico a cui è orientata tutta la storia del mondo.
È un evento in qualche modo adombrato dalla profezia di Isaia (prima Lettura): ha un forte impatto sulla storia dei popoli. Questi saranno attirati al monte del Signore, «poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore». Il popolo dei credenti ha il compito di custodire e offrire a tutti i popoli la parola di Dio. Essa è l'unica ad avere la capacità di trasfigurare la storia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci». Questa è la prima conseguenza dell'ascolto della Parola. Tutti i popoli saranno radunati insieme e «una nazione non alzerà più la spada contro un'altra nazione».
Questa sarà la vera fine del mondo. Finirà la legge delle armi: che per quanto le consideri difensive sono sempre un'offesa all'altro e a tutti i poveri del mondo. Lo vediamo in questi mesi di guerra in Ucraina: la pace armata, prima o poi, sfocia in guerra. Ma spetta a ciascuno di noi disarmare il proprio cuore. Stando al sogno profetico di Isaia, la pace non sarà "ognuno a casa propria", ma un convergere insieme di molti popoli, un mescolarsi fra stranieri. Si inizia con il riconoscere e accogliere quell'estraneità che è presente in ciascuno: c'è una parte del proprio "io" che ci è lontana, e facciamo fatica ad accettarla. Viene fuori con un atteggiamento di difesa e di rivalsa, perché riflettiamo sugli altri, attribuendola a loro, la non accoglienza di noi stessi. Bellissima l’immagine di molti popoli che, dinanzi alla presenza del Signore, si trovano insieme, si guardano in faccia e, inaspettatamente e miracolosamente, lasciano cadere le armi dalle loro mani, anzi, le trasformano in strumenti per produrre quello che serve alla vita.

 

Il brano del Vangelo è tutto incentrato sul non sapere umano riguardo la venuta del Figlio dell'uomo. Sarebbe stato bene iniziare la pericope dal versetto precedente: «Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né in Figlio, ma solo il Padre» (Mt 24,36). Anche il Figlio, che ne è pur il protagonista, non conosce il giorno e l'ora. Anche Gesù ha fatto della sua vita una vigilanza, un discernimento, un vivere sempre al meglio tutte le situazioni.
«Come furono i giorni di Noè». Secondo il midrash, Noè è stato avvisato con molto anticipo del diluvio, in modo da dare ai suoi contemporanei la possibilità ampia di mettersi in salvo. Addirittura, la tradizione ebraica racconta che si è messo a piantare gli alberi dai quali avrebbe ricavato il legno per fare l'arca, e che avrebbe scelto un tipo di albero molto lento a crescere. Tanto che ci ha messo il tempo della vita di un uomo per costruirla. Dunque, la nostra vita è lo spazio temporale per accogliere la misericordia salvifica del Signore.

 

Il Vangelo non condanna il fatto che la gente, al tempo di Noè, mangiava e beveva, perché è una cosa buona. Paolo dice: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualunque altra cosa, tutto fate per la gloria di Dio». Così pure il prendere moglie e marito è cosa molto buona perché «non è bene che l'uomo sia solo» (Gen 2,18). Quello che viene condannato è vivere la vita senza capire ciò che è in gioco: la misericordia del Signore. È la comprensione del nostro oggi che salva il futuro. Bisogna guardarsi dall'irresponsabilità, dall'assenza di discernimento.
Dunque quella lunga costruzione dell'arca è un segno per la salvezza di tutti. Eppure gli uomini della generazione del diluvio vedevano, ma non capivano. Vivevano senza il sospetto che quella lunga attesa degli alberi per l'arca fosse un avviso. La realtà era diventata piatta, muta. Loro l'avevano resa insignificante. Vivevano senza sospetti, chiusi nella materialità delle cose. «Sospettare» viene dal latino suspectare, che significa guardare dal basso in alto. Ma l'uomo è tentato di guardare con presunzione, dall'alto verso il basso. Invece bisogna sospettare, guardare dal basso in alto, con umiltà, facendo parlare i volti, la casa, la strada, facendo parlare il cielo e la terra. Facendo parlare l’oggi per salvare il futuro. E cogliere l'attesa che abita le cose. Allora, le donne e gli uomini che vedono me, quello che faccio ogni giorno dovrebbero leggervi l'attesa di un "oltre", l'attesa di un futuro.

 

La venuta del Signore richiede di vigilare non solo sul nostro oggi, ma anche sul proprio cuore. Il racconto parla di due persone impegnate allo stesso lavoro, che non sembrano diverse in nulla, però una viene presa (cioè salvata) e l'altra lasciata (cioè abbandonata al disastro). È la durezza con la quale la venuta del Signore spezzerà le solidarietà umane superficiali. Indica che ciò che nella quotidianità dei giorni rimane nascosto, sarà manifestato alla venuta. La differenza si gioca nell'interiorità che non appare agli occhi. Sovvertimento di un mondo attuale dominato dal «baccanale dell'esteriorità».

 

Alberto Vianello

 

 

Certo, passerà la scena di questo mondo, è successo al tempo di Noè, eventi tragici periodicamente sconvolgono l’assetto del cielo e della terra e un giorno tutto sarà polvere. L’idea della fine è ‘metafisica’, originaria, ma riposta in un angolo, per quanto di tanto in tanto ne facciamo esperienza. Di ogni disgrazia cerchiamo la causa, come se bastasse per esorcizzarla. Il Vangelo torna a richiamare la fine, ma se in forza della paura che essa incute intende condurci alla conversione, le nostre possibilità sarebbero a zero.

 

Dalla paura non nasce la libertà, non la speranza di essere in qualche modo salvi o salvati. La paura è connessa all’idea di un’autorità severa, normativa, quindi ad un temibile super io, al senso di colpa e del dovere. Può mai essere che la paura generi un’anima generosa, una coscienza morale libera? La paura non ci rende migliori né più umani, al contrario di quanto affermano le dittature. Non c’è maggior vita se non siamo al contempo più liberi o quel che ne esce non è l’uomo ‘vivente’, ma corrotto, annichilito, svilito. Qualcuno ha detto che questo Dio è morto.
Ma allora? Perché Gesù usa parole così dure? Proviamo a dirla così: “Ragazzi, sveglia! Qualora vi foste addormentati (ci siamo addormentati), persi nelle questioni di quaggiù, ricordate che il tempo a disposizione è breve: riflettete, cercate, rispolverate l’esigenza di vita, di felicità che vi abita, nessuno si schermi con ‘quel che fanno gli altri’, ma ciascuno badi a sé, risponda per sé…”.

Questa lettura, che è legittima, esalta la responsabilità individuale e segna la via per liberarsi dalla soggezione. Si tratta di conoscere chi è Gesù, cosa c’entra con me, cosa ha da dire alla mia coscienza intenta a conoscere rettamente il senso del mio esserci e, semmai, i modi della felicità. Giudizio e libertà di coscienza correggono il nichilismo legato a paura e soggezione. Non c’è obbligo, siamo liberi, ‘figlioli’ ci chiama, ‘amici’, non schiavi, siamo soggetti solo al nostro giudizio di coscienza. La libertà dell’uomo nasce qui, con il Cristianesimo (a parte ci starebbe un cenno sulla grecità, un’altra volta). Il ‘peccato’ non è sbagliare strada, ma sta nell’occultare a sé il giudizio della propria coscienza. Ma senza libertà non c’è adesione o scelta. Gesù non si impone, si propone, diceva quel tal prete, e lo fa con molto rispetto. Non dice: se vuoi venir fuori dagli impicci credi in me. Non è mica un partito o, peggio, una setta! Al contrario: vieni e vedi, fai la mia conoscenza e vedi se ti riguarda. Per cui i cristiani, quelli che in qualche modo aderiscono, sono sempre solo discepoli, scolari. Per via essi scoprono che Gesù di Nazareth, il Figlio dell’uomo rivela noi a noi stessi.
Se il Cristo rimanda al Dio della Legge, di cui si dice che è Figlio, il Gesù di Nazareth è il Figlio dell’uomo, uomo come noi. Se il primo è la rivelazione del Padre, il secondo è la rivelazione dell’uomo. Per dirla in termini ‘greci’: se il Dio degli Ebrei è ‘l’Essente’ (colui che è), Gesù è l’Esistente, la sua declinazione storica (nella pienezza dei tempi), coessenziale al Padre e uno di noi.

Teologia a parte, il linguaggio di Gesù è molto più vicino, è come se dicesse: “Guardatemi e vedete se in me vi ritrovate. Cercate se è così per voi. Desiderate la fiducia, la gioia di amare i vostri amici, di non avere nemici, superare i confini… Desiderate la pace ma vi turba la guerra che c’è nei dintorni, la vostra felicità è insidiata dalla tristezza altrui, la malattia di un altro è una minaccia alla vostra salute… Non si può essere felici da soli…”. E quindi: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per la vostra vita” (Mt 11,29).
Già così ci si slarga il cuore e il desiderio, dilatato dalla riflessione, concepisce la preghiera, il passo è breve.
L’Avvento è vigilia della venuta del figlio di Maria e di Giuseppe a ‘Casa del pane’, Betlemme, uomo come noi, primo vero uomo atteso da secoli.
Anche la nostra vita breve non è una stasi ma una vigilia di rinascita, attesa di completezza e già ne proviamo le doglie del parto.

 

Valerio Febei e Rita

 

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