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In nome della fraternità

Briciole dalla mensa - 23° Domenica T.O. (anno A) - 10 settembre 2023

 

LETTURE

Ez 33,1.7-9   Sal 94   Rm 13,8-10   Mt 18,15-20

 

COMMENTO

 

«Se il tuo fratello…»: tutto ciò che segue è dettato da questa parola. L'interessarmi e l’impicciarmi nelle pecche dell'altro è esclusivamente a titolo della fraternità: non perché viene infranta la legge e la giustizia, ma perché quella persona mi è cara come lo è un fratello, provo per lui tale sentimento, lo guardo con tale tenerezza. Solo se porto il dolore e la gioia dell'altro, se ne conosco le lacrime sono autorizzato ad ammonirlo: non in nome della verità, ma della fraternità.

 

La frase «contro di te» manca in parecchi manoscritti: sembra che sia un'armonizzazione successiva con la domanda di Pietro che troviamo al v. 21, riguardo al fratello che «commette colpe contro di me». Se dunque tale espressione non c'è, qui stiamo parlando di mancanze che non mi colpiscono. Eppure il Vangelo raccomanda di intervenire con la correzione. È la messa in guardia dal silenzio complice di chi non vuole crearsi problemi di relazione con l'altro, di chi non vuole denunciare il male con sempre buoni motivi per non invischiarsi.
Anche oggi, nella Chiesa, si vivono le conseguenze dell'omissione riguardo alla denuncia del male e del peccato, magari per salvaguardare il "buon nome" della Chiesa, finendo con l'essere conniventi con le colpe commesse.

 

«Va e ammoniscilo»: ovvero «avvicinati» a lui, per accoglierlo e capirlo, e «convinci», come è meglio tradurre il secondo verbo. «Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello»: la nostra vera ricchezza è il fratello, il capitale da accumulare, che non marcisce e nessuno ci ruba. Caino aveva affermato: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Sì, l'altro è il mio bene che devo proteggere gelosamente, non ho ricchezza che sia paragonabile, per quanti soldi abbia.
Segue un lavoro di «convinzione» in tre gradi: possono essere anche di numero diverso e di altra impronta. I gradi stanno a indicare un intervento che deve essere dettato dalla prudenza, dalla gradualità, dalla fantasia e dalla persistenza. Perché il fine non è uno qualsiasi: è riconquistare la realtà della comunione fraterna all'interno della comunità cristiana e recuperare ad ogni costo il fratello.

 

«Se poi non ascolterà… sia per te come il pagano e il pubblicano». Non è la condanna, ma la misericordia e il perdono. Dio aveva detto a Giona: «Io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale ci sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere la mano destra e la sinistra?» (Gn 4,11). Ninive era il nemico per antonomasia, la città del peccato impenitente. Dio aveva mandato a tutti i costi e con insistenza il profeta a predicare la conversione. Dio fa di tutto e non si arrende davanti al peccato insistito dell’uomo.
«Sia per te»: il fratello, con la sua rottura, ti rimane nel cuore e nella tua carne. La correzione fraterna richiede molta umiltà e la disponibilità a ricredersi e a ricominciare. La vera correzione non arriva mai al giudizio e alla condanna, ma è un evento che fa regnare il Signore e il suo amore gratuito anche per i peccatori nelle nostre relazioni fraterne.

 

In ogni modo, l'azione della correzione-convinzione non finisce qui. Molto giustamente la liturgia ci propone anche i versetti successivi con il detto sulla preghiera in comune, perché questa è l'estrema ratio dell'intervento di correzione. Infatti il testo parla dell'eventualità della preghiera al fine di «chiedere qualunque cosa»: alla lettera è «pragma», «affare», che è il termine tecnico per indicare una controversia all'interno della comunità cristiana (cfr. 1Cor 6,1) (A. Mello). Perciò si sta riferendo ancora la vicenda precedente.
Dopo che le hai provate tutte, rimani aperto, comunque, al perdono; devi ancora mettere in campo l'azione più efficace per recuperare il fratello: la preghiera. Una preghiera che, innanzitutto, è già iniziativa di comunione: è molto bello, infatti, il verbo letterale che, in greco, è sinfonèo, «essere in armonia». La passione per il fratello, che porta due o più a mettersi insieme per pregare in suo favore, è come una magnifica sinfonia, che fa fare un'esperienza bella dell'ascolto. E una tale musica il Padre l'ascolterà senz'altro, garantisce Gesù: Egli non aspetta altro che di essere allietato da tale bellezza.

 

Ma bisogna guardarsi da una concezione un po' "magica" della preghiera, purtroppo molto diffusa. Consiste nel pensare che la preghiera debba cambiare le disposizioni di Dio: da poco (o nulla) disponibile, a elargitore di grazie come manna che cade dal cielo. Invece, la preghiera vera serve cambiare l'uomo, non Dio. La preghiera mi dà la forza di coinvolgermi e impegnarmi – nella misura di quello che può essere il mio contributo -, con l'aiuto di Dio, per quella causa per la quale prego. Così, la sinfonia di chi prega per i fratelli che creano problemi di comunione fraterna può provocare dei cuori oranti più disponibili ancora in favore di quei fratelli, e una carità che piega sempre di più verso di essi.

 

Alberto Vianello

 

 

 

Adesso gliene dico quattro, così siamo pari… O è meglio tacere per timore di offendere o di ferire, di mostrare disappunto? Non c’è autenticità neppure in questo. Il Vangelo offre delle piste: non giudicare, mettersi d’accordo con la controparte mentre sei per via, prima la trave poi la pagliuzza, fai all’altro come vuoi ti sia fatto…
Insomma c’è di che districarsi. Un prete poneva il quesito: perché il curato d’Ars, ma anche padre Pio, confessando, convertivano? Perché facevano ricadere su di sé il peccato altrui. Occorre che qualcuno espii quella roba. Una sensazione di pulizia si prova anche davanti a persone afflitte da grande dolore, bambini in carrozzina, se se ne regge la presenza. Essi, diceva sempre quel prete, espiano il peccato del mondo e lo ripuliscono. È la logica della croce. Per lo più neppure ci accorgiamo delle contraddizioni che abbiamo dentro (Sal 18,13: “Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo”). Ma la compagnia dei santi (e i piccoli sono santi) ci rende migliori. Si parte da una gran pazienza, si passa per la discrezione e si finisce per sentire l’errore dell’altro come proprio; oppure che l’altro vada per la sua strada. Ma l’uomo non è il suo errore. Capiamo anche per questa via il mestiere di Gesù, che funziona come il sangue tracciato sugli stipiti delle case ebree in Egitto: l’angelo della morte passa oltre. Chi ha fatto cosa? Non importa.

 

Correggere comporta assumere una posizione, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore. Si capisce se si fa distinzione tra l’errore e il suo autore, se si aggrava o si solleva. “Ricordati chi sei!”, dice il re leone al piccolo Simba. Correggere è un bell’impiccio e non vale che, siccome costa fatica (amore), è preferibile lasciar correre. Ezechiele parla chiaro: se quello si perde per la tua omertà tu ne sei responsabile. C’è poi il caso curioso di Giona che era invidioso che i Niniviti si convertissero!

 

Nessuno è il suo errore. Il peccato si lega a tante situazioni vicine e lontane che neanche se ne trova il nesso. Sì, la psicologia spiega qualcosa ma non risolve. Il determinismo giustifica e imprigiona. Ma l’uomo non ci si gioca ‘per sempre’ con i comportamenti. Torna Pirandello, il tema dell’essere pur se, dàgli oggi e dàgli domani, si finisce per credere quella cosa lì: Enrico IV, per esempio. Ma io non sono il mio errore. Cosa allora? La domanda ha senso per i giusti e gli ingiusti e per il Sal 8: “Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?”. L’uomo non è neppure il suo pensiero, come se il pensiero sia in grado di fondare la realtà, a sentire Cartesio. Piuttosto è “come l'erba che germoglia al mattino: al mattino fiorisce, germoglia, alla sera è falciata e dissecca” (Sal 89,6). Noi ‘siamo’ solo se siamo in Cristo che dice: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso” (Mt 16, 34). Come è messo allora il nostro orgoglio, il grumo di idee sul nostro essere, bello o brutto che sia? Nella ‘comunione’ avviene uno scambio tra il mio nulla e il tutto della Vita, corpo e sangue, carne e spirito. E quanta sarà la consapevolezza di questo passaggio tanto si potrà dire con san Paolo: “Non son più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

 

Cosa legheremo, se legare vuol dire fare unità, cosa scioglieremo se sciogliere vuol dire affrancare? Eppure è bene vigilare sulle parole, perché hanno un potere in questo mondo, fanno bene e fanno male. “Con essa (la bocca) benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. E' dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev'essere così, fratelli miei!” (Gc 3,9-10). Per giunta quel che si fa agli altri si fa a sé stessi…
E cosa domanderemo? Quel ‘qualunque cosa’ potrebbe fuorviare (un super enalotto?), ma vale a condizione che si sia uniti in e con Lui. Dice sempre Paolo che “noi non sappiamo neanche cosa sia conveniente chiedere” ma se ne incarica lo Spirito (Rm 8, 26). Proviamo ad immaginare di amare per davvero qualcuno (a volte capita): non desideriamo quel che egli desidera? Non gli daremmo la luna? Se c’è di mezzo un tesoro, è lui! Tale può essere Cristo per noi, man mano che comprendiamo il suo dono di amore. E tanto più ciò accade quanto più facciamo di noi un dono per Lui: un vuoto a perdere contro una botte di vin bon.

 

Valerio Febei e Rita

 

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