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Germoglia l'impossibile pace

Briciole dalla mensa - 2° Domenica di Avvento (anno A) - 4 dicembre 2022

 

LETTURE

Is 11,1-10   Sal 71   Rm 15,4-9   Mt 3,1-12

 

COMMENTO

 

«Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse». Il bellissimo inno di Isaia della prima Lettura inizia con questa immagine: un tronco tagliato e secco, simbolo delle infedeltà dei re discendenti di Davide. Ma ecco spuntare da questo tronco morto un germoglio, cioè un inizio assolutamente inatteso e quindi gratuito di vita. Dobbiamo lasciarsi sorprendere dall'opera del Signore.
Talvolta gli uomini di Chiesa, pur con le loro bardature religiose, sono più increduli degli atei. Infatti misurano solo le capacità umane e non sanno sperare che, là dove c'è una storia di Grazia all'opera, anche se il tronco venisse reciso (venir meno di quelli che «hanno numeri»), il Signore è fedele e saprà far sbocciare un germoglio. E la pianta che riprenderà vita sarà più ricca della precedente, perché più trasparente dell'opera gratuita di Dio, in quanto non deriva dalle capacità umane.

 

Quello di Isaia è un grande poema messianico: è il Messia che spunterà da quel tronco. Su di lui lo Spirito è effuso in pienezza e totalità. E si manifesta in una serie di doni che abbracciano tutta la vita umana. Ma il dono più alto che il Messia riceve da Dio, e che è chiamato a realizzare nel mondo rinnovato, è la costruzione di un regno di giustizia e di imparzialità, di difesa dell'oppresso e di pace. Questi valori saranno così determinanti il vivere fra gli uomini, da dare origine addirittura ad un nuovo paradiso. Si congiungeranno in armonia indistruttibile quelle realtà che, in natura, sono opposte e inconciliabili: gli animali selvaggi (lupo, pantera, leoncello, orsa, leone, aspide) e gli animali domestici (agnello, capretto, mucca, bue, lattante). Questa è la pace che il Messia porta: questo è ciò che è venuto a realizzare Gesù Cristo.

 

Talvolta mi chiedo se ci crediamo veramente. Perché, se veramente fossimo convinti nella fede che Gesù porta la vera e definitiva pace, quella che riconcilia e mette in armonia gli opposti, perché continuiamo a dividerci, ad opporci, a negarci nella fraternità? Da notare, poi, che tale pace è fra ciò che è più selvaggio e ciò che è più domestico, fra ciò che è più aggressivo e ciò che è più indifeso: dà i brividi pensare alla scena di un bambino piccolo che mette la mano nel covo del serpente velenoso. È dunque una pace che garantisce i deboli e disarma i forti: distrugge le opposizioni e le situazioni di prevaricazione, toglie motivi di divisione, di violenza e di difesa. Se non siamo convinti che questo è reso possibile oggi, non crediamo veramente alla venuta del Signore Gesù.

 

«Convertitevi perché il regno di Dio è vicino», dice Giovanni Battista. Si è avvicinato quel nuovo paradiso profetizzato da Isaia per i tempi del Messia. Quindi bisogna «convertirsi»: non si può più stare ad aspettare, perdere tempo, perché il cambiamento è possibile, il peccato non ci inchioda più alla sterilità della vita, le situazioni paralizzanti possono essere superate.
La radice del peccato è quell'arroganza in negativo che porta a dire: «Io non cambierò mai», «Io sono così e non ci posso fare niente». È il segno che si pensa al cambiamento come un'opera propria, e non come apertura all'azione del Signore e alla potenza della sua Grazia. L'umiltà non ha niente a che fare con la fiducia in se stessi: è fiducia nell'azione positiva del Signore in noi, a partire dal riconoscimento della propria impotenza. Ci convertiamo perché è il Signore che si converte a noi e ci converte al suo Regno: siamo perciò anche noi come il ceppo tagliato e seccato, su cui miracolosamente spunta un nuovo germoglio.

 

Giovanni si mostra molto severo con gli uomini religiosi (farisei e sadducei), venuti al suo battesimo. Egli denuncia la loro falsa sicurezza nella salvezza, e il sentirsi al riparo da ogni pericolo grazie alla discendenza da Abramo. Ma il Battista ricorda loro che l'essere figli di Abramo è esso stesso un dono gratuito di Dio e non può trasformarsi in una falsa garanzia di avere il paradiso garantito. La fede non è ricerca di vantaggi e privilegi: siamo tutti cittadini del cielo, perché il cielo è venuto ad abitare la terra. La fede è umile, serena e accorata accoglienza del dono di Dio.

 

In Matteo, anche Gesù proferirà una severissima e lunga invettiva contro l'ipocrisia religiosa degli «scribi e farisei» (cfr. Mt 23,1-36). Ad essi rimprovera una fede solo di facciata, formale, esteriormente ineccepibile, ma interiormente corrotta: «Legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (Mt 23,4).
Se la Chiesa, oggi, stesse di più nel vissuto della gente, nei racconti delle persone, forse si renderebbe conto che impone una disciplina, per certi versi, "disumana" e che quindi non veicola il Vangelo. Oltre i dettati morali (o moralistici) e canonici, bisogna trovare il modo di coniugare la fede cristiana dell'amore per Dio e per gli altri dentro un vivere umano e sociale che è molto cambiato; essendo disposti a rivedere anche capi saldo tradizionali, perché il reale e il concreto del Vangelo è l'unico irrinunciabile.

 

Questa è l'immagine giudiziale del grano e della paglia che usa il Battista. Talvolta si interpreta che tale immagine è stata poi smentita, nei fatti, da Gesù. Invece Gesù la confermerà e la radicalizzerà con un’«ira imminente» che sarà il prendersi cura di tutti coloro che sono «stanchi e oppressi» a causa dei fardelli religiosi a loro imposti: «Prendete il mio giogo sopra di voi imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,29-30).

 

Alberto Vianello

 

 

Che negli anni della predicazione di Giovanni fosse diffusa qua e là nel mondo romano il sentore o l’attesa di un rinnovamento spirituale e morale è un dato della storia e della letteratura. Ne scrive, uno a caso, Virgilio nelle Egloghe e nell’Eneide.

A suo tempo Giovanni, il figlio di Zaccaria, si ritira ai margini del deserto, lontano dalle chiacchiere perché ‘sente’ che il tempo è vicino, occorre prepararsi. Le parole d’ordine sono cambiare vita, opere di conversione, cintura ai fianchi.
Il sistema religioso ebraico non funziona più, l’ebraismo a guida farisaica e sadducea è imbalsamato, immobilizzato dal laccio formale della Legge. Sulla linea dei profeti, di Ezechiele, Isaia & C, Giovanni dice che occorre un trapianto di cuore e andare oltre la Legge per riqualificare la Legge, allorché la legge è divenuta ‘korban’, una difesa della negligenza e delle cose come stanno.

Quell’epiteto, ‘razza di vipere’, oltrepassa il mondo ebraico e arriva fino a noi. Il meccanismo della giustificazione s’è mischiato con la nostra natura. Viene in mente il profeta Natan che racconta al re Davide di un povero, della sua pecorella che teneva come una figlia e di un ricco che aveva molte greggi e gliela prese. “Che dici di quell’uomo?”. Rispose il re: “Merita la morte”. “Tu sei quell’uomo!”, una spada sarebbe stata meno dolorosa. Il giudizio di coscienza arriva tramite il profeta, spesso è così. Davide, che aveva ‘rubato’ la moglie ad Uria mandato a morire, si coprì di cenere. Scrisse il Salmo 50.

A Giovanni si aggiunsero uomini e donne che con lui attendevano il ‘kairos’, il giorno del Signore, e tutto diventava secondario. C’è da chiedersi come stanno le cose dalle nostre parti.
‘Ma io sono figlio di Abramo, sono a posto’. Troppo corta è la coperta! “Egli si illude con se stesso nel ricercare la sua colpa e detestarla” (Sal 36). Dico le preghiere, vado a Messa… tutto ciò che di buono usiamo per saltare il fosso e dirci al sicuro non funziona. Vengono alla mente il fariseo ritto in piedi e il disgraziato che si batteva il petto in fondo al tempio. Dalla setta ebraica prende nome il fariseismo, una sorta di categoria (o malattia) dello spirito, un modo di essere corrotto che separa sé da sé, dallo ‘spirito e verità’, da Dio. L’Ebraismo non è più lievito di verità e di giustizia, luce dei popoli.
Razza di vipere! “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me!” (Mc 7,6). Di chi parli, Signore? Era tutto scritto ma c’è bisogno di altro. Allora Giovanni ci dà dentro, con la scure.

C’è da chiedersi: ma questi argomenti sono una fissa di scappati di casa, esagitati, casi psichiatrici o hanno una ragion d’essere che ci riguarda?
Ci provo. E vedo che il confine tra la schiettezza e l’approssimazione è mobile, che, se voglio, posso spostare avanti o arrestare il processo dell’autocoscienza nel confrontarmi con la Parola (giacché vorrei dirmi ‘credente’ ed esserlo). Un solo esempio. Pietro nella sua prima lettera (5,7) dice: “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio perché vi esalti al momento opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione perché egli ha cura di voi!”, facendo equivalere l’umiltà col liberarsi dagli assilli, ed uno che è geloso delle sue preoccupazioni (e delle relative inquietudini) resta spiazzato. Il mio prete si fermava e chiedeva: “ È vero? È così?”.

Basta, dice Giovanni. Ecco sta per venire, secondo le promesse dei profeti, il go’el, colui che vi rialza, voi che non gliela fate a stare nella fedeltà e nella fiducia. Alla fine il Santo scende come Figlio dell’uomo perché, in lui, io, anche se continuo a non farcela, ce la faccia. Posso vantarmi di lui.
Così diventa possibile non anteporre più l’istinto, i problemi, me stesso a Dio. Succede allora che non abbia più bisogno di maledirmi (maledire) per quel che mi manca: sei tu il padre, la madre che non ho avuto, sei tu l’uomo o la donna che ho sognato, il figlio, il lavoro, l’amico, la bellezza che ho atteso e attendo ancora, la salute che vien meno, tu sei la casa che mi manca: in te, Gesù, io ho tutto.
Occorre farsi violenza, ce lo dice uno che vestiva di peli di cammello, non cucinava e aveva il fuoco dentro. Il fuoco di Gio’.

 

Valerio Febei e Rita

 

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