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Parola di Dio e non parole di fede

Briciole dalla mensa - 4° Domenica T.O. (anno B) - 28 gennaio 2018

 

LETTURE

Dt 18,15-20   Sal 94   1Cor 7,32-35   Mc 1,21-28

 

COMMENTO

Nella prima Lettura di questa domenica viene annunciata "l'istituzione" della figura del profeta. Il suo ministero sarà di portare la parola di Dio al popolo. Israele ha visto che ascoltare direttamente il Signore è grande e tremendo: è un vortice d'amore che ti prende e ti trasforma dalla testa ai piedi. Un'esperienza tanto vertiginosa ha ispirato prudenza, alla quale Dio accondiscende: «"Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, - dice il popolo - e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia". Il Signore mi rispose - dice Mosé - : "Quello che hanno detto va bene. Io susciterò loro un profeta e gli porrò in bocca le mie parole"». Perciò l'esperienza di Dio è mediata attraverso le parole del profeta: la parola di Dio è vestita di parole umane. Per questo motivo è necessario un lavoro di interpretazione di tali parole, perché esse vengono da un tempo e da una cultura umana che non appartengono più all'uomo contemporaneo.
Due derive rischiano, oggi, di non fare accostare la gente alla parola di Dio e quindi alla fede. La prima è la lettura solo letterale della Scrittura: essa impedisce di svestire la parola di Dio della parola umana. La seconda è la rinuncia ad accostarsi alla Parola perché la si considera difficile e perciò riservata ai soli iniziati allo studio. In questo secondo rischio c'è anche la responsabilità dei pastori delle comunità cristiane che non sempre pongono al cuore della pastorale lo spezzare il pane della Parola: unico alimento per il cammino di fede.

 

Dio dice: «Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli». Papa Francesco configura il pastore della Chiesa come colui che ha la sensibilità e la conoscenza della Parola e, insieme, ha la sensibilità e la conoscenza della sua gente: in perfetta linea con la figura del profeta nell'Antico Testamento e con la figura di Gesù, il profeta pari e superiore a Mosé, perché è ancora più «in mezzo» e i suoi fratelli uomini ed è ancora più vestito della parola di Dio, tanto da dirla con tutta la sua carne.
Che bello sarà in paradiso poter ascoltare la Parola direttamente dalla voce del Signore! Eppure tale bellezza è già tutta presente nella parola di Dio contenuta nelle Scritture e annunciata da Gesù Cristo. Lo Spirito Santo ci dia una scossa dalla nostra pigrizia per attaccarci alla Parola, per scrutarla, per interrogarla, per lasciarsi conquistare da essa.

 

Il Vangelo, nel racconto di Gesù che guarisce un malato, ci mostra proprio questa Parola - così mediata dalla sua umanità e pur potente - mentre agisce nell'uomo. E questo, dice Marco, è il modo in cui Gesù insegnava: «Come uno che ha autorità... un insegnamento nuovo, dato con autorità», dice la gente.
La malattia in questione è particolare: «Un uomo posseduto da uno spirito impuro». Sotto questa categoria si mettevano tutti i fenomeni che portavano le persone a comportarsi in maniera strana; azioni nelle quali l'uomo non può essere se stesso: è proprio uno spirito estraneo e negativo che lo condiziona. Questo spirito nell'uomo riconosce la realtà di Gesù: «Io so chi tu sei: il Santo di Dio!». Potremmo dire che sa a perfezione il catechismo. Ma l'influenza negativa di questo spirito si mostra nel rifiutare qualsiasi coinvolgimento: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?». Si può anche confessare in maniera perfetta la fede, ma questo non vuol dire di essersi posti dalla parte del Signore. Solo una reale sequela può farci dire di camminare con Gesù. Sia il Vangelo che la nostra esperienza si mostrano che tante persone bollate come "lontane" sono capaci di lasciarsi prendere dal Signore. Mentre altre, che dicono tanto riguardo alla fede, in verità rischiano di mostrare l'opposto. La Chiesa deve essere più coraggiosa: da una parte, nell'avere le braccia aperte per accogliere senza pregiudizi religiosi tutti quelli che si pongono in cammino. Dall'altra, nel sapere riprendere un certo tono forte di Giovanni Battista: «Razza di vipere! Fate un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: "abbiamo Abramo per padre!"» (Mt 3,7-8). Questo per smuovere le coscienze di chi, per certi versi, ha un po' delle caratteristiche di questo spirito impuro. Spero di non essere troppo polemico riportando proprio in questo contesto del commento, una constatazione degli esegeti: pare che quest'uomo posseduto da uno spirito immondo frequentasse regolarmente la sinagoga...

 

La parola di Gesù guarisce quest'uomo, ma facendo venir fuori il male: «Lo spirito impuro straziandolo e gridando forte, uscì da lui». Nel brano parallelo, Luca dice invece che uscì «senza fargli alcun male». Il racconto così colorito di Marco ci suggerisce allora che la prima azione benefica è far venire alla luce un male che diventava ancor più male perché veniva tenuto soffocato. La parola di Gesù può anche far male, ma serve per far venire alla luce ciò che si tiene nascosto per timore di affrontarlo. Una volta in evidenza, il male può essere combattuto e vinto, separando il male stesso da chi ne è posseduto e quindi vinto. La Parola non condanna mai la persona: la avvia, invece, in un percorso di liberazione.
È proprio tale forza della parola di Gesù che conquista la gente. Il loro raffronto religioso è diretto e spietato: «Insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi». Questa stessa autorità Gesù l'ha trasmessa ai suoi discepoli (e solo questa): scacciare il male (cfr. Mc 3,15). E la gente ha la sensibilità di cogliere se le iniziative della pastorale sono sulla linea della liberazione dell'uomo, oppure se sono solo parole, che non sono poste al servizio di Dio perché non sono poste a servizio dell'uomo.

 

Alberto Vianello

 

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