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La “resa” di Dio

Briciole dalla mensa - 24° Domenica T.O. (anno B) - 16 settembre 2018

 

LETTURE

Is 50,5-9   Sal 114   Giac 2,14-18   Mc 8,27-35

 

COMMENTO

«Voi, chi dite che io sia?». Per la nostra fede, Gesù è e rimane innanzitutto una domanda. Non per stare sempre dentro un'aura di incertezza o di continua messa in discussione di tutto. Ma per continuare a tenere aperta la nostra vita al suo mistero, per non rinchiuderci nel già saputo, per non ridurlo alle nostre concezioni di Dio sempre troppo chiuse e troppo prudenti. Gesù e le sue promesse divine sono come un mare nel quale siamo esitanti nel buttarci e nel farci portare. In questi giorni ci siamo trovati a vivere la morte di una persona cara, ancora giovane ed esemplare nell'amore. Il dolore per il distacco è tale che in qualcuno torna a bruciare la domanda: «Ci sarà davvero la risurrezione dei morti?». Siamo condizionati da un mondo che dà per vero solo l'immediato e il constatabile direttamente; e, d'altra parte, abbiamo paura di fidarci del troppo bello, di un Dio che ci vuole così tanto bene da vincere l'invincibile: la nostra morte.

 

Gesù annuncia ai suoi discepoli la sua prossima passione. Egli ha capito che il rifiuto della sua persona da parte dei capi religiosi di Israele finirà con il costargli la vita. Gesù "prevede" la sua morte e risurrezione, non perché sia onnisciente, ma perché era assiduo nell'ascolto delle Scritture. Così, la prima Lettura descrive le sofferenze di un «Servo» del Signore, che però non si sente sconfitto a causa di esse, perché pone tutta la sua fiducia nel Signore: «Il Signore Dio mi assiste (due volte)... E’ vicino chi mi rende giustizia». La «resistenza» nei confronti del male subito e delle sofferenze può avvenire solo attraverso una «resa» al Signore e alla sua Parola: «Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro». Non resistere al Signore permette di resistere al male e ai dolori, fidandosi di Lui e del suo sostegno e amore.
Alla luce delle Scritture, il «doveva soffrire molto» viene allora correttamente interpretato non come un'assurda volontà divina di dolore e di espiazione attraverso di esso, ma come il mistero d'amore di Dio che nella solidarietà addirittura con gli uomini ultimi abbandonati (anche da Dio) rivela proprio il suo essere Dio. Infatti, davanti alla morte in croce di Gesù, il centurione romano riconosce che «davvero quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39).
Non bisogna poi trascurare il fatto che Gesù, insieme alla sua passione, annunzi anche la sua risurrezione. Una vita umana come la sua, continuamente consegnata nelle mani del Padre mettendosi al servizio degli uomini e della loro salvezza, non potrà mai essere definitivamente vinta dalla morte. Anche per la risurrezione, Gesù non possedeva la coscienza certa di essa, ma continuava a sviluppare un rapporto di fiducia divina. Così la fede nel Padre lo portava a sperare la risurrezione perché «la fede è il fondamento di ciò che si spera» (Eb 11,1).

 

Gesù aveva annunciato ciò che lo attendeva «apertamente», per questo Pietro reagisce prendendolo in parte e «rimproverandolo». Per il primo degli apostoli, il «Cristo» deve innanzitutto salvaguardare la sua "immagine", perché coloro che lo seguono non ne rimangano scandalizzati. Anche oggi si corre il rischio di celare un Cristo così spogliato e consegnato nelle mani dell'uomo. Si punta di più su un Cristo portatore di una morale, oppure fondatore di una tradizione religiosa ormai invecchiata e insignificante, oppure come lontano ed evanescente trionfatore finale che ci lascia vivere nella «valle di lacrime». Il vero Cristo, invece è sempre nel continuo atto di dono di tutta la sua vita, come è avvenuto sulla croce. Un atto che non ha lo scopo di colpevolizzare l'uomo o di fargli computare il prezzo pagato da Gesù; ma che vuole unicamente mostrarci e "farci toccare" il suo amore. Quando guardo la croce posso avere dubbi su Dio, ma non sul suo amore per me e per tutti.

 

Il rimprovero di Gesù a Pietro è molto forte, ma ha lo scopo di istruirlo, non di demolirlo. «Va dietro me»: seguire con docilità e imparare è il compito del discepolo. Anche oggi la Chiesa deve innanzitutto porsi alla sequela del Signore nel dono di sé al servizio dell'uomo, soprattutto del povero scartato.
Addirittura Gesù chiama Pietro «Satana», «perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». La Scrittura ci rivela che da sempre il pensare di Dio è la condivisione e la compromissione con l'uomo: accettare la croce, per Dio vuol dire fare di questa volontà degli uomini il più tragico ma il più provvidenziale luogo perché l'uomo senta che Dio è con noi.

 

Da questo episodio Gesù prende spunto per un insegnamento rivolto a tutti, e quindi di grande importanza. Seguire Gesù esige «rinnegare se stessi». Non è un assurdo annientamento della propria umanità. L'invito del Maestro a fare come Lui («Se qualcuno vuole venire dietro a me»), rinnegando se stessi, consiste nell'avere il dominio di sé; cioè nel non essere schiavi che lasciano piena libertà alla signoria del proprio io egocentrico, che guarda sempre prima a se stesso e ai propri interessi. Il Signore è tale, perché ci ha mostrato di essere innanzitutto Signore di se stesso: sin dalla creazione ci ha rivelato di pensare più a noi che a se stesso. Sulla croce ha rinunciato non solo ad essere uomo, ma soprattutto ad essere Dio, perdendosi per noi, per ritrovarsi nel dono fatto a noi della sua vita. Oggi siamo molto preda degli istinti di conservazione, come vivessimo nella giungla, invece di riconoscere la città degli uomini come luogo dove spenderci per gli altri, per ritrovare la nostra vera umanità.

 

Alberto Vianello

 

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