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Il debito della carità

Briciole dalla mensa - 23° Domenica T.O. (anno A) - 10 settembre 2017

 

LETTURE

Ez 33,1.7-9

Sal 94

Rm 13,8-10

Mt 18,15-20

COMMENTO

O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa di Israele.

Il libro di Ezechiele, probabilmente, è stato scritto parte in Palestina e parte in Babilonia, durante l’esilio. Al centro dell’opera c’è la caduta di Gerusalemme (587) e la fine dell’esistenza nazionale di Israele. Il profeta possiede una certezza, che traduce e manifesta in tutta la sua opera: è imminente la venuta del «giorno del Signore», che determinerà una frattura profonda nella storia meravigliosa di Israele con il suo Dio, giunta al suo limite e diventata un controsenso assoluto: l’infedeltà del popolo è così grande che il Signore «ridurrà la terra ad una solitudine e a un deserto a causa di tutti gli abomini che hanno commesso» (Ez 33,28-29). E’ un annuncio di morte. Tuttavia non è la morte come tale, con tutto il suo orrore, che farà conoscere chi è il Dio di Israele, ma la Parola che interpreta questa morte: è necessario perciò un ministero nuovo. La parola di Ezechiele svolge un ruolo nuovo, adatto a questo tempo unico, e fa del profeta la «sentinella» che, alla frontiera, ode il grido del Signore: «Io ti ho posto come sentinella per la casa di Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia».

Io penso che si tratti, anche oggi, dentro una storia ecclesiale «piena di ossa inaridite», nella quale non mancano – grazie a Dio – le voci profetiche – di avvicinarci di nuovo alla Parola, sostenuti e guidati dallo Spirito Santo. Se la Parola verrà annunciata con verità dove la vita si è spenta, se rinunceremo alle facili e ripetitive cantilene religiose, proprie di una predicazione insapore, se la Parola sarà come un fuoco acceso dentro le viscere di chi la deve annunciare, allora «il Signore aprirà le nostre tombe e ci farà uscire dai nostri sepolcri» (Ez 36,12-13). La crisi delle nostre comunità non è imputabile solo ad una prolungata e silenziosa apostasia dalla fede. E’ soprattutto mancanza di profezia, di coraggio, di verità evangelica. E’ adattamento del Vangelo allo spirito del mondo, riducendolo ad una parola innocua, persa fra molte altre.


Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole, perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge.

Negli ultimi capitoli della lettera di Paolo ai Romani troviamo tutta una serie di esortazioni e di raccomandazioni che riguardano la vita cristiana in generale, ma specialmente i doveri imposti dalla carità. Il nostro passo sottolinea come l’amore verso il prossimo stia al centro dell’impegno morale del cristiano. Paolo parte dall’affermazione che non dobbiamo avere debiti con nessuno, ma precisa subito il suo pensiero scrivendo che siamo comunque debitori di un vicendevole amore. Nel momento in cui Gesù accordava a tutti gli uomini il grande perdono pasquale che avrebbe rimesso tutti i “debiti”, egli ha voluto lasciare ai suoi la regola della vita nuova: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Recentemente un amico prete mi ha narrato un fatto che manifesta come il Vangelo rimanga normalmente estraneo alla nostra vita. Si era deciso di accogliere nei locali della sua parrocchia una famigliola di sinti che avevano dato prova di voler vivere una vita ‘dignitosa’, separandosi dal campo nomadi. Il paese è subito insorto affiggendo sui muri del paese cartelli anonimi: «Voi, per guadagnarvi un angolo di paradiso, condannate noi a vivere all’inferno!». Sì, il Vangelo è un’altra cosa, e il debito della carità non vogliamo pagarlo mai.

La prima parte del capitolo 18 di Matteo ha come idea dominante la difesa dei “piccoli” che credono nel Signore, ma che restano sensibili allo scandalo, con il rischio di smarrirsi e anche di perdersi. Tanta parte delle nostre comunità è costituita da questi “piccoli” che sanno poco di teologia e manifestano una fede che spesso rimane periferica e superficiale. Quando poi questa fede fragile incontra scandali e compromessi di uomini di Chiesa, preti e vescovi compresi, allora davvero rischiamo di perdere porzioni notevoli del popolo di Dio. Il Vangelo ci prescrive di accogliere con sollecitudine questi “piccoli”, di sostenerli senza disprezzarli, per tre ragioni: il Signore si identifica con loro; i loro angeli nel cielo stanno sempre alla presenza del Padre, il quale vuole che neanche uno di essi vada perduto.

 

Se tuo fratello commetterà una colpa.

Invece, la pericope che ci viene offerta per la meditazione di questa settimana ha come centro di interesse la sollecitudine pastorale verso il fratello peccatore. Molto probabilmente si tratta qui di un peccato pubblico e non di un’offesa al fratello incaricato di correggerlo. Di fronte al peccato nessuno può rimanere indifferente. Nel far vedere al fratello il non-valore della sua azione, o del suo atteggiamento, allo scopo di suscitare in lui un movimento di conversione, si compie un atto di carità. Come nella parabola della pecora smarrita, l’iniziativa deve essere del pastore. Matteo, a questo punto, testimone della vita delle comunità nelle quali crescono insieme grano e zizzania (Mt 13,36 ss.), aggiunge tre lezioni pratiche.

Se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.

Il fratello colpevole viene a trovarsi in una situazione scomoda, che assomiglia a quella di un processo, benché si resti sul terreno della carità fraterna. L’ostinazione a rimanere nell’errore diventa uno scandalo che mette in pericolo l’intera comunità. Sarà allora la comunità tutta intera a farsi carico del peccatore: ogni Chiesa deve avere il coraggio di proteggere efficacemente i fratelli deboli contro lo scandalo causato da alcuni.

 

Se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.

A questo punto verrebbe spontaneo pensare che, esaurite tutte le possibilità di pentimento, non resti altro che costatare la rottura e considerare ormai il peccatore come un estraneo, un escluso dalla comunità. Anche oggi è prevista la scomunica per mafiosi e corrotti.

Io continuo a guardare all’atteggiamento di Gesù verso i pagani e i pubblicani. Ha guarito il servo del centurione pagano (Mt 8,5-13). Ha liberato due indemoniati, nel territorio pagano dei Gadareni (Mt 8,28-33). Ha chiamato Matteo, il pubblicano ((Mt 9,9). Ha esaudito il grido della donna cananea (Mt 15,21-28). E il centurione romano, un pagano che faceva la guardia a Gesù crocifisso, è il primo che lo riconosce: «Davvero costui era il Figlio di Dio» (Mt 27,54).
Ieri, come oggi, è più facile escludere, e siamo bravi a trovarne le ragioni. Costato però che il Vangelo esprime un pensiero diverso. Pienezza della Legge è la carità. Compimento della giustizia è la misericordia.

 

Giorgio Scatto 

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